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Netanyahu e Abu Mazen, due leader al tramonto

Fulvio Scaglione
13 ottobre 2023
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Abu Mazen e Netanyahu sono ormai politicamente finiti. Rappresentano un modo di intendere la relazione (inevitabile) tra Israele e i palestinesi basata sul confronto e sulla violenza che si è fatto ormai insostenibile.


Le stragi indescrivibili di questi giorni, in Israele e a Gaza, soffocano nell’orrore qualunque considerazione di più lungo periodo. Però non è possibile ignorare un fatto: questa guerra segna la fine politica, e in un certo senso antropologica, degli attuali leader: Mahmoud Abbas (Abu Mazen) per i palestinesi della Cisgiordania e Benjamin “Bibi” Netanyahu per gli israeliani. Il primo ha 88 anni e frequenta gli alti livelli della politica palestinese dall’inizio degli anni Novanta. Il secondo di anni ne ha 74 ma è già da tempo colui che più a lungo ha occupato la poltrona di primo ministro dello Stato ebraico, molto più di personaggi come David Ben-Gurion o Golda Meir.

L’uno e l’altro, anche se magari in misure diverse, devono sentirsi colpevoli per ciò che accade in questi giorni. Netanyahu, pur di conservare il potere, nelle ultime elezioni ha completato una marcia verso destra che lo ha portato a imbarcare esponenti di un ultranazionalismo venato di razzismo, portando così alle ultime conseguenze una promessa tutta basata su sicurezza e repressione che alla fine si è rivelata fasulla. In poche ore, con l’attacco inaspettato di Hamas, è finito il mito dell’invincibilità dei servizi segreti e dell’esercito di Israele. Per quanto terribile possa essere la reazione dello Stato ebraico, Israele non è mai stato così fragile. E confuso: nonostante tutto, è ancora fresco il ricordo delle enormi folle che, solo poche settimane fa, inondavano le città israeliane per protestare contro le “riforme” tese a mettere le briglie alla magistratura e, soprattutto, alla Corte suprema che tante volte in passato ha fatto da elemento moderatore rispetto agli eccessi dei governanti.

E anche se questa crisi è partita da Hamas e da Gaza, Abu Mazen, massima autorità dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e della Cisgiordania, deve prendersi le proprie responsabilità. Che non riguardano l’ultimo attacco armato ai civili israeliani, ovviamente, ma l’incapacità di far davvero decollare il progetto Palestina. In Cisgiordania non si tengono elezioni dal 2006 e Abu Mazen, il cui mandato presidenziale è scaduto nel 2009, ha usato fin troppo spesso lo spettro di Hamas per evitare il confronto con il proprio popolo. Sia lui sia Netanyahu, ognuno a modo proprio, hanno sfruttato la retorica più oltranzista per infiammare gli animi, salvo poi adattarsi in modo furtivo a politiche più concrete e realistiche: a metà settembre – solo pochi giorni fa – il governo di Israele ha rischiato la crisi per l’ira dell’ultradestra di fronte a una fornitura di armi all’Anp decisa da Netanyahu per aiutare Abu Mazen a riportare sotto controllo i quartieri di città come Nablus e Jenin, di fatto dominati dagli estremisti simpatizzanti per le brigate militari di Hamas.

Abu Mazen e Netanyahu sono, più che leader finiti, leader che devono finire. Rappresentano un modo di intendere la relazione (inevitabile) tra Israele e i palestinesi basata sul confronto e sulla violenza che si è fatto ormai insostenibile. E fanno da tappo a energie migliori che sia la società palestinese sia quella israeliana certamente contengono.

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