Sono per lo più di etnia hazara e fede sciita i milioni di afghani presenti in Iran. I primi arrivarono negli anni Novanta del Novecento e trovarono buona accoglienza. Ora, invece, vanno crescendo i sentimenti xenofobi tra gli iraniani, conservatori o progressisti che siano. Le ragioni.
Con il ritorno dei talebani a Kabul nell’agosto del 2021, è affiorato in Iran un sentimento di xenofobia verso gli immigrati afghani, non solo per il numero crescente di arrivi ma anche per motivi più profondi, dettati da ragioni di sicurezza e di squilibri demografici. Gli afghani in Iran sono tanti, giunti ad ondate sin dagli anni Novanta del secolo scorso. Si tratta per lo più di hazara, una minoranza etnica sciita perseguitata duramente dai talebani e oggetto in patria di continui attentati e violenze da parte dei clan sunniti e dell’Isis anche quando il Paese era sotto occupazione statunitense. Secondo rapporti dell’Onu, in Iran si trovano 900 mila rifugiati regolarizzati e due milioni di clandestini. Il governo di Teheran stima ufficialmente la cifra a 5 milioni di profughi, mentre alcuni politici parlano addirittura di 7 milioni. Si tratta comunque di percentuali importanti sugli 85 milioni di popolazione complessiva.
Nelle grandi città, a cominciare da Teheran, la loro presenza è tangibile: sono i muratori e gli operai dei grandi cantieri edili che costruiscono nuovi grattacieli e centri commerciali nella parte nord della capitale. Sono portieri o uomini e donne di fatica nei condomini di lusso. Rappresentano la maggioranza in alcune baraccopoli di Teheran sud, dove si concentrano tutte le povertà. Finora erano stati accolti – raccontano loro stessi ai media sia iraniani che internazionali – con spirito di tolleranza: in fondo parlano la stessa lingua e condividono lo stesso credo sciita. Vedono nella Repubblica islamica una patria adottiva e difficilmente da lì ripartono per cercare fortuna in Europa. Negli ultimi due anni però le cose sono mutate e i sentimenti amichevoli della società iraniana si sono trasformati – anche nella percezione degli stessi afghani – in un crescendo di ostilità.
Diversi fattori hanno contribuito, oltre ai numeri sempre più imponenti. Tanto per cominciare, con il regime integralista dei talebani, i flussi di eroina e oppiacei non sono diminuiti, come era invece la speranza di Teheran, ma sono rimasti agli stessi livelli record dell’epoca dell’occupazione statunitense. Come riferiscono i media iraniani, parte della merce in transito rimane all’interno della Repubblica islamica, con costi sociali drammatici: secondo dati dell’Onu, in Iran ci sono circa due milioni di tossicodipendenti da droghe pesanti.
Ad esacerbare gli animi è stata poi anche la crescente tensione sul controllo delle acque di confine tra i due paesi. In base ad un trattato al 1973, l’Afghanistan deve garantire che parte delle acque del fiume Helmand vadano alle province iraniane del Sistan e del Balucistan. Teheran ha accusato i talebani di aver invece diminuito i flussi, creando difficoltà alla popolazione sudorientale iraniana, proprio in un periodo di grande siccità. Ci sono state dispute e incidenti armati alla frontiera, ad un livello di conflittualità mai raggiunto con i governi precedenti di Kabul.
Infine, è arrivata la paura del terrorismo. A trasformare la questione afghana in una questione di sicurezza, agli occhi dell’opinione pubblica iraniana, è stato l’attentato del 26 ottobre 2022 nel santuario sciita di Shag Cherag in pieno centro a Shiraz. Quel giorno, nel pieno delle proteste dei giovani contro il velo e il regime teocratico, alcuni uomini entrarono nella moschea, una delle più sacre in Iran, e uccisero a colpi di kalashnikov 15 persone, ferendone altre decine. L’attacco fu rivendicato dal sedicente Stato islamico (Isis). La colpa ricadde su due afghani, poi processati e impiccati.
Lo scorso agosto, la moschea di Shiraz è stata colpita per la seconda volta, con un nuovo attacco, costato quattro morti e decine di feriti. Stavolta l’Isis non ne si è assunto la responsabilità, ma tra gli attentatori la polizia ha arrestato un tagiko, proveniente da un campo di addestramento dello Stato islamico in Afghanistan. A questo punto, la diffidenza verso gli immigrati ha preso i toni di un movimento xenofobo.
Uno dei deputati più autorevoli del Majilis (il Parlamento iraniano), Nouri Qazaljeh, ha descritto l’immigrazione afghana negli ultimi due anni come «una minaccia alla sicurezza» dell’Iran. Contemporaneamente, nelle ultime settimane, sia i giornali moderati sia quelli riformisti hanno cominciato a criticare apertamente il governo del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi per l’apertura di credito verso i talebani e la linea ambigua verso l’immigrazione afghana. Il quotidiano conservatore Jomhuri Eslami ha lanciato una campagna, sostenuta da alcuni membri del Parlamento, perché il governo si riprenda l’ambasciata afghana a Teheran, lasciata alla gestione operativa dei talebani, pur in assenza di un ambasciatore accreditato. L’Iran è uno dei pochi Paesi al mondo a non aver rotto le relazioni con Kabul. «Non possiamo abbandonare una rappresentanza diplomatica nelle mani di un gruppo di terroristi», si legge però su Jomhuri Eslami.
Per l’ala riformista, la questione dell’immigrazione afghana non si limita tanto a problemi di sicurezza e di minacce terroristiche, spesso ingigantiti da una destra che vorrebbe estendere il potere militare e poliziesco su tutta la società. Per i progressisti, tocca in realtà tasti più profondi e in qualche modo collegati alle stesse proteste scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, la ragazza arrestata dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo. I milioni di afghani immigrati in Iran, pur avendo poco o niente a che vedere con il terrorismo, sono comunque portatori di una visione religiosa molto più tradizionalista e arretrata rispetto a quella ormai laica della stragrande maggioranza della popolazione iraniana, si legge in un editoriale di un analista iraniano pubblicato alcuni giorni fa sul sito del Middle East Eye.
Sul velo e il ruolo subalterno delle donne, gli afghani sono ancora più radicali della stessa classe dirigente di Teheran. Gli immigrati sono giovani, poveri, poco acculturati. Costituiscono potenzialmente una massa di manovra manipolabile – è il ragionamento dell’analista – per un regime teocratico sempre più isolato rispetto alla propria gente, come dimostrato dalle manifestazioni per la morte di Mahsa Amini, e dalla disobbedienza civile dilagante in materia di codici di abbigliamento islamici. Non è un caso – suggerisce l’editoriale – che la dirigenza iraniana non abbia ostacolato gli afflussi negli ultimi due anni. Gli afghani si sposano a diciotto anni, fanno molti figli. In tempi relativamente brevi, se venisse concessa la cittadinanza iraniana alla seconda generazione, potrebbero modificare gli equilibri demografici della popolazione, rafforzando la componente religiosa ultraconservatrice.