Padre Paolo Dall’Oglio è scomparso dieci anni fa, il 29 luglio 2013. Abbiamo visitato il monastero siriano, al cuore dell’esperienza spirituale e di dialogo del gesuita romano, che ha continuato a essere un luogo di fede e accoglienza, anche nei momenti più bui della guerra. La testimonianza del suo successore, padre Jihad Youssef.
Saliamo i quattrocento gradini di pietra che dalla valle desertica portano all’antico monastero di Deir Mar Musa al-Habashi, cioè intitolato a san Mosè l’Abissino. All’imbrunire si confondono con la montagna i colori delle pietre di questo insediamento religioso siriaco nato nel VI secolo e tornato in vita quarant’anni fa, quando padre Paolo Dall’Oglio, gesuita romano, vi ha preso dimora. Nel corso degli anni ha raccolto intorno a sé una comunità ecumenica mista, innumerevoli ospiti e visitatori, siriani e stranieri, e ha intrapreso un percorso di amicizia con i musulmani. Fino a quando gli stravolgimenti della guerra che ha devastato la Siria e i siriani hanno costretto il fondatore a lasciare il Paese. Alla Siria abuna Paolo ha dedicato la sua vita, che nessuno sa con totale certezza se in questo mondo sia terminata, dopo il suo rapimento avvenuto dieci anni fa, il 29 luglio 2013 a Raqqa, lungo l’Eufrate.
Arrivati alla soglia, sotto la tenda dell’accoglienza, un benvenuto, tra gli abbracci e tazze di tè: visitiamo con emozione il luogo che parla di un’esperienza straordinaria di ospitalità e incontro tra cristianesimo e islam. «Non abbiamo certezze del suo destino fisico, ma vediamo i frutti di ciò che ha seminato», ci dice padre Jihad Youssef che dal 2021 è superiore della comunità di Deir Mar Musa, presente oggi anche nel nord dell’Iraq e a Cori (Latina). «Pensare che Paolo non sia più presente fisicamente da tanto tempo ci stimola a riflettere. Resta l’idea, l’eredità, il suo insegnamento… Una strada fatta insieme, che continua. Certo, c’è l’assenza affettiva, la preoccupazione per il suo destino ignoto, ma non c’è un’assenza di senso, una mancanza di forza. C’è un motivo in più per andare avanti».
«Non puoi lasciare chi ti è stato affidato»
Le mura di Deir Mar Musa non sono state distrutte nella guerra, ma innumerevoli difficoltà sono state vissute e condivise con i musulmani e i cristiani che vivono nei pressi del monastero. Nel 2015 un membro della comunità, padre Jacques Mourad, oggi vescovo dei cattolici siriaci a Homs, fu rapito per cinque mesi da un gruppo di estremisti islamici. «Abbiamo cercato di mantenere sempre i rapporti di amicizia con tutti – spiega il superiore –. La gente di qui non poteva andarsene. Noi avremmo potuto, ma abbiamo scelto di restare, soprattutto per loro e per dare senso alla nostra vita. Che fai? Scappi? E lasci coloro che ti sono stati affidati da Dio?».
Deir Mar Musa è rinato proprio con il compito dell’amore per tutti i musulmani. Negli anni di una crescente incomprensione tra occidentali e musulmani, tra sponde del Mediterraneo, il monastero si faceva conoscere per il dialogo, nutrito dalla riflessione di Paolo Dall’Oglio. Il nostro passaggio al monastero è alla vigilia della grande festa islamica del Sacrificio: il giorno seguente abuna Jihad si recherà nella vicina città di al-Nabk a portare gli auguri dei monaci agli amici musulmani.
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Con i musulmani, amicizia e speranza comuni
Come procede questo cammino di dialogo? «Teniamo viva l’amicizia e la speranza comune. Anche se in modi diversi, aspettiamo Cristo che verrà per completare ogni cosa. L’amicizia è basata sul rispetto, perché loro vedono il bene che facciamo, per la comunità cristiana e per la comunità musulmana. E anche noi vediamo in loro l’occasione concreta, nelle persone, nei volti, di vivere il nostro carisma: amare i musulmani. Guardandoli con gli occhi di Gesù, soprattutto quelli che sono più vicini. Del resto, è inutile amare in astratto… Alcuni di loro sono più aperti, altri meno, alcuni sono un po’ sospettosi, altri molto riconoscenti e apprezzano la nostra presenza e il fatto che siamo consacrati».
Il nucleo più antico del monastero cela i preziosi affreschi della chiesa. Nella penombra delle candele in arabo e in alcune lingue europee si celebra la liturgia della sera nel rito siriaco. Abuna Jihad accompagna alcuni passaggi ritmando colpi sulla pelle tesa del daf, il popolare tamburo della tradizione mediorientale.
Nel silenzio si prova ad immergersi nella spiritualità di una regola monastica «che recupera la grande tradizione spirituale dei padri del deserto e insieme le dà il senso nuovo di una testimonianza dell’amore di Cristo nel contesto arabo-musulmano». Sono parole di papa Francesco che ha scritto la prefazione al testamento spirituale di padre Dall’Oglio. Il libro, pubblicato in questi giorni (Itl, Milano 2023), raccoglie conferenze e riflessioni del gesuita. «È un commento alla prima forma della Regola – spiega il suo successore alla guida della comunità –, fatta negli ultimi otto e nove mesi prima di essere espulso dalla Siria nell’estate 2012. Lo abbiamo riletto in varie parti, meditandolo in Chiesa nella preghiera del mattino. È stato come attingere di nuovo, alla fonte, aspetti conosciuti e nuovi, riattivare momenti ed esperienze vissute insieme a lui. A leggerlo a distanza di anni risveglia in noi l’entusiasmo e la voglia di tornare a concentrarci su alcune dimensioni fondamentali della nostra vita religiosa».
«Profumi diversi, ma l’acqua è la stessa»
Padre Dall’Oglio univa la spiritualità del monaco e una visione della realtà lucida, «politica» nel senso di attenzione ai polites, i cittadini, con le loro aspirazioni di libertà e giustizia. Per la Siria si è speso con coraggio: il suo viaggio a Raqqa di dieci anni fa era uno degli innumerevoli tentativi di mediare e portare pace. Conosceva profondamente le fragilità degli equilibri del Paese precipitato nella violenza, scatenata da forze sia interne sia esterne.
«Durante questi dieci anni la comunità, volente o nolente, si è concentrata su aspetti legati agli aiuti umanitari, ai bisogni urgenti, venendo incontro al povero, al malato, al disperato», continua padre Jihad. Le condizioni di povertà e isolamento della Siria oggi rendono difficile per gli europei tornare in questo luogo di silenzio e preghiera. Ma il monastero è riuscito ad essere punto di riferimento per le comunità vicine, capace di ospitare fino a duecento persone in particolari momenti dell’anno, come il Triduo pasquale, anche con l’aiuto di giovani volontari che qui trascorrono lunghi periodi.
Perciò la comunità, come altre comunità cristiane in Siria, dà una testimonianza in un Paese che è poco carico di speranza. «Difficile “inventare” la speranza – osserva padre Jihad –, deve essere un dono. Guardando le cose, ognuno trova quello che cerca. Non si tratta di aspetti oggettivi per tutti. Quello che cerchi, troverai. Dipende da cosa vuoi. Noi umilmente cerchiamo di volere quello che vuole Dio e di parlare partendo dalla nostra vocazione. Chiaramente la testimonianza cristiana può essere autentica anche in persone che vedono le cose in modo diverso. È il mistero della Chiesa che è un giardino con colori e profumi diversi, ma l’acqua è la stessa». Di chi ha saputo unire, come abuna Paolo Dall’Oglio in modo coraggioso, le vie tracciate da santi così diversi nei carismi e nei secoli come Ignazio di Loyola, Francesco d’Assisi, Charles de Foucauld. Profumi diversi, in uno stesso giardino. (f.p.)
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