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Iraq e Siria, eterni amici-nemici, aprono una nuova fase

Fulvio Scaglione
28 luglio 2023
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Negli equilibri sempre mutevoli del Medio Oriente, la visita di metà luglio a Damasco del premier iracheno Mohammed Shia al-Sudani riduce, in prima battuta, l’isolamento internazionale della Siria, ma soprattutto rafforza l’Iran.


Pochi giorni fa, quasi ignorata dalle cronache, si è svolta la prima visita ufficiale di Stato di un leader politico iracheno in Siria: il premier Mohammed Shia al-Sudani ha incontrato, calorosamente accolto, il presidente siriano Bashar al-Assad. A prima vista, si è trattato di un altro capitolo del reinserimento del leader siriano nel reticolo delle relazioni politiche del Medio Oriente, fatto peraltro certificato dalla riammissione della Siria nella Lega Araba, nel maggio scorso, dopo dodici anni di espulsione a causa delle rivolte del 2011, della loro repressione e della successiva guerra. In realtà, nei sorrisi e nelle strette di mano che Al-Sudani e Assad si sono scambiati c’è molto di più. In particolare, c’è un fattore importante che si chiama Iran.

Nella guerra scoppiata in Siria nel 2011 l’Iraq non è mai stato neutrale. E questo a dispetto della storia precedente, cioè del fatto che il dittatore iracheno Saddam Hussein e quello siriano Hafez al-Assad (padre di Bashar) si odiassero con tutto il cuore. La Siria appoggiava l’Iran contro l’Iraq nella guerra che oppose Teheran e Baghdad dal 1980 al 1988. L’Iraq ha a lungo sostenuto, in Libano, le milizie anti-Hezbollah e anti-Iran. E nel 1991, quando Saddam decise di invadere il Kuwait e scatenare così la prima Guerra del Golfo, la Siria decise di aderire alla coalizione internazionale anti-Iraq. Nel 2011, alla vigilia dell’insurrezione siriana, però, le cose erano già cambiate. L’Iraq era diventato il primo partner commerciale della Siria e non a caso si astenne nel voto della Lega Araba per espellere la Siria e decise di non aderire all’embargo commerciale che la stessa Lega decretò per completare quell’espulsione.

Durante i lunghi anni della guerra in Siria, la dirigenza filo-iraniana dell’Iraq, arrivata al potere dopo la caduta di Saddam Hussein e gli anni folli della pseudo-amministrazione Usa, ha sempre sostenuto la resistenza di Assad di fronte alla contestazione interna, alla lotta armata e all’espansione dell’Isis. Permettendo a migliaia di miliziani sciiti di attraversare il confine per andare a ingrossare i reparti organizzati in Siria dal generale iraniano Qassam Suleimani, non a caso ucciso dagli americani nel 2020, proprio a Baghdad. Consentendo agli aerei iraniani di usare lo spazio aereo iracheno per raggiungere la Siria e consegnare carichi di aiuti definiti «umanitari», ma in realtà militari. E così via.

È chiaro che la posizione dell’Iraq è strategica. Attraverso il suo territorio gli ayatollah e i loro generali possono stabilire una sorta di rotta diretta fino a Libano, Israele e Giordania. E se il patto con l’Arabia Saudita dovesse reggere e portare a una composizione della violenta crisi dello Yemen (dove i due Paesi sono in pratica contendenti), il quadro si farebbe ancor più favorevole a Teheran e insidioso per gli altri. Anche in questo caso, molto dipende dalla guerra in Ucraina. Uno dei grandi interlocutori dei Paesi fin qui citati, soprattutto di Siria (nel 2015 l’intervento militare russo ha salvato Assad dalla sconfitta), Iran (l’alleanza con gli ayatollah è diventata strategica, per gli armamenti e per le rotte commerciali), Arabia Saudita (il petrolio) e Israele (le relazioni sono tradizionalmente buone e la minoranza russa israeliana è molto forte), è la Russia, da un anno e mezzo impegnata in un braccio di ferro cruento con l’Occidente. Questo la distrae dal fronte mediorientale, a cui Vladimir Putin ha sempre dedicato molte cure. Che potrebbe succedere domani, con una Russia dalle mani più libere?

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