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Criminalità araba in Israele: più di 100 morti in 6 mesi, il governo si attiva

Giorgio Bernardelli
19 giugno 2023
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Nel primo semestre del 2023, nelle città israeliane a maggioranza araba sono già più di 100 le persone uccise in scontri tra bande criminali. Una piaga nota da tempo, che il governo non però ha contrastato con decisione. Ora qualcosa si muove. Nella direzione giusta?


Di fronte allo choc destato in Israele dal superamento della soglia dei 100 morti in meno di sei mesi nelle violenze tra gruppi criminali arabi, il governo Netanyahu ieri – 18 giugno 2023 – ha scelto la più classica delle risposte: la creazione di un comitato interministeriale. Un organismo politico per affrontare le «questioni arabe». In realtà esisteva già, ma non era ancora stato ricostituito da quando il sesto esecutivo guidato da «re Bibi» è entrato in carica. Ora, però, hanno rimediato e a presiederlo sarà personalmente Benjamin Netanyahu, che un paio di anni fa era andato anche a fare campagna elettorale nelle cittadine arabe della Galilea, ammiccando con il nomignolo di Abu Yair (dal nome di suo figlio Yair, fino a pochi mesi fa attivissimo suo propagandista sui social network).

Nel nuovo comitato c’è solo un piccolo problema: a costituirlo, insieme a ben 18 ministri (tra i quali Itamar Ben Gvir e tre suoi colleghi di una forza politica dichiaratamente anti-araba) è stato chiamato un unico funzionario arabo. L’«ultimo dei mohicani» si chiama Hassan Tawafra ed è il direttore generale dell’Autorità per lo sviluppo economico della minoranza araba, un ufficio del ministero per l’Uguaglianza sociale che nel governo Netanyahu è significativamente accorpato al ben più potente ministero per la Diaspora ebraica.

Ci sarebbe da sorridere, se non fosse per la situazione decisamente drammatica che le comunità arabo-israeliane, ormai ostaggio della violenza delle bande criminali, si trovano a vivere. Il problema non nasce certo oggi ed era stata una delle questioni chiave che aveva portato giusto due anni fa Mansour Abbas a portare il suo partito arabo Ra’am nell’eterogenea coalizione di governo messa in piedi da Naftali Bennett e Yair Lapid. Il minimo comune multiplo dell’alternativa a Netanyahu, da solo, non poteva però funzionare; e con lui è saltato anche ogni tentativo di affrontare questo problema che ormai toglie il sonno a migliaia di famiglie discendenti da quei palestinesi che nel 1948 scelsero di rimanere nei propri villaggi e diventare a tutti gli effetti cittadini israeliani.

Secondo le Iniziative di Abramo (Abraham Initiatives) – un gruppo di monitoraggio anti-violenza e per le pari opportunità tra cittadini israeliani arabi ed ebrei – dall’inizio dell’anno in Israele sono stati uccisi almeno 103 arabi in circostanze violente, con un aumento notevole rispetto ai 44 uccisi registrati in questo stesso periodo del 2022. Non sono grossolanamente «bande criminali che si uccidono tra loro»; in questa tragica legge del più forte sono ormai tanti i casi di uomini, donne e bambini arabi morti semplicemente per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma è una questione che scuote ancora tremendamente poco Israele.

Lo sottolinea bene Amjad Iraqi in un articolo apparso in queste ore sul blog israeliano +972. Una riflessione che prende le mosse da un’osservazione: anche molti arabi protestano denunciando l’assenza della polizia israeliana e dello Shin Bet (i servizi di sicurezza interni) nelle città arabo-israeliane. Ma questo – si chiede Amjad Iraqi – è proprio vero? La polizia e l’intelligence, soprattutto dagli anni della seconda intifada (2000-2004), ci sono eccome in Galilea. Ma il problema è di che cosa si occupano (l’attivismo filo-palestinese) e che cosa invece fanno finta di non vedere (la criminalità organizzata locale). Perché il punto vero è che – 75 anni dopo – queste aree di Israele sono comunque ancora avvertite come un mondo a sé, molto meno importante del resto del Paese.

Amjad Iraqi racconta anche un altro episodio avvenuto in queste ore: di fronte all’emozione suscitata dal centesimo morto, gli organizzatori delle proteste che da 24 settimane ogni sabato sera si tengono a Tel Aviv avevano invitato a parlare dal palco anche l’avvocata araba Rawia Aburabia. Le avevano posto, però, una condizione: avrebbe dovuto affrontare il tema della violenza nelle comunità arabe, ma senza utilizzare da quel palco una parola «divisiva» come «occupazione». Aburabia ha rimandato l’invito al mittente. Perché – in fondo, esattamente come Netanyahu – anche in quella piazza di Tel Aviv, avrebbero voluto parlare degli arabi ma senza di loro.

Clicca qui per leggere la notizia sul Comitato per le questioni arabe sul sito di The Times of Israel

Clicca qui per leggere l’articolo di Amjad Iraqi sul sito +972

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