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Pechino rimescola le carte in Medio Oriente

Elisa Pinna
16 marzo 2023
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La Cina, finora partner economico di primo piano sia dell'Iran che dell'Arabia Saudita (oltre che di Israele), conquista il ruolo di referente politico nella regione, mentre si indebolisce sempre di più l’influenza statunitense.


La ripresa dei rapporti diplomatici tra la Repubblica islamica iraniana e l’Arabia Saudita, grazie alla mediazione e alle garanzie della Cina, rappresenta una nuova svolta nelle dinamiche mediorientali. Le conseguenze concrete si vedranno nei prossimi mesi. Già il fatto però che l’intesa tra i due grandi avversari del Golfo Persico, la massima potenza sunnita e la massima potenza sciita, sia stata firmata e annunciata a Pechino, lo scorso 10 marzo, indica un fatto inedito e storico.

La Cina, finora partner economico di primo piano sia di Riyadh che di Teheran (oltre che di Israele) conquista il ruolo di referente politico nella regione, mentre si indebolisce sempre di più l’influenza statunitense. Il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman (deluso, fra l’altro, per il mancato intervento Usa, nel marzo 2019, in risposta ai razzi e droni iraniani lanciati sulle raffinerie dell’Aramco dai ribelli yemeniti houthi) si è smarcato dal suo tradizionale alleato occidentale e ha imboccato strade più autonome. Nell’impossibilità di eliminare la minaccia proveniente dall’Iran, la scelta pragmatica del principe è stata quella di tentare la strada dell’intesa.

Una delle conseguenze di questa svolta è che gli Accordi di Abramo – presagio di una potenziale piccola Nato mediorientale ideata dall’allora presidente statunitense Donald Trump in funzione anti-iraniana e con il coinvolgimento di Israele – rischia di insabbiarsi per sempre: il violento radicalismo anti-palestinese del sesto governo Netanyahu e i propositi di espandere la colonizzazione ebraica a tutti i territori occupati non possono piacere ai governi dei Paesi arabi firmatari (Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Marocco), per i rimbalzi negativi sulle loro opinioni pubbliche interne. L’Arabia Saudita, che non aveva ancora firmato il Patto, difficilmente deciderà di farlo in questo momento. Il vuoto lasciato in Medio Oriente dagli Stati Uniti, al momento concentrati soprattutto sulla guerra ucraina e sulle manovre anticinesi nonché reduci dal disastroso abbandono dell’Afghanistan, è stato rapidamente occupato proprio da Pechino.

Riyadh e Teheran avevano rotto i rapporti ufficiali nel 2016, quando gruppi di pasdaran avevano assaltato l’ambasciata saudita nella capitale iraniana, dopo che la monarchia del Golfo aveva giustiziato un leader della comunità sciita locale.

L’ostilità tra Arabia Saudita e Repubblica degli ayatollah ha tuttavia radici ben più lontane e persiste da decenni (la sua “preistoria” risale addirittura a quando in Iran c’era lo scià), tra fasi di tensioni, periodi di bonaccia e guerre sanguinose per procura, dal Libano all’Iraq, dalla Siria allo Yemen, dove – dal 2015 – i sauditi, a guida di un’alleanza araba, difendono il governo con sede ad Aden contro i ribelli houthi, insediati nella capitale Sana’a, appoggiati e riforniti militarmente dall’Iran.

Dal 2021, tuttavia, Riyadh e Teheran avevano ripreso i contatti sottotraccia, attraverso i buoni uffici dell’Iraq e dell’Oman. Ci è voluto però tutto il peso (economico e commerciale, prima ancora che diplomatico) della Cina per condurre in porto il negoziato. Negli ultimi tre mesi, in concomitanza con le prime mosse del nuovo governo israeliano, vi è stata un’accelerazione. Il presidente cinese Xi Jinping ha incontrato il principe ereditario saudita Mohamed bin Salman a Riyadh, nel dicembre 2022, e il presidente iraniano Ibrahim Raisi lo scorso febbraio, a Pechino.

Nell’accordo, firmato anche dalla Cina in quanto garante, Arabia Saudita e Repubblica Islamica iraniana «si impegnano a rispettare la sovranità degli Stati e a non intromettersi nelle loro vicende interne». A breve, annuncia il documento, avverrà un incontro tra i due ministri degli Esteri, iraniano e saudita, ed entro due mesi saranno riaperte le ambasciate. Attenzione, avvertono gli esperti: l’intesa per il ripristino dei rapporti diplomatici tra Arabia Saudita e Iran non implica automaticamente la soluzione di tutti i conflitti regionali. Potrebbe rivelarsi però – sperano in molti – un passaggio decisivo per porre fine alla guerra in Yemen, trasformatasi, negli anni, nella peggiore catastrofe umanitaria mondiale, oltre che in una sorta di Vietnam, in termini di immagine ed economici, soprattutto per l’Arabia Saudita. Un segnale importante, dopo l’accordo di Pechino, proviene dalla visita ad Abu Dhabi, questo 16 marzo, dell’iraniano Ali Shamkhani, segretario del Consiglio per la sicurezza nazionale della Repubblica islamica, e negoziatore nell’accordo di Pechino. La ragione di questa visita sta nel fatto che anche gli emiratini svolgono un ruolo chiave in Yemen, ormai come giocatori in proprio, dopo l’iniziale alleanza con i sauditi.

Per la dirigenza iraniana, la svolta diplomatica di Pechino arriva come una boccata di ossigeno nel momento di massima difficoltà e isolamento, dopo mesi di proteste anti-regime, accompagnate dalla minaccia incombente di un bombardamento israeliano su obiettivi militari del Paese. A Teheran i giornali ufficiali della Repubblica islamica traboccano entusiasmo e ottimismo sulle future dinamiche mediorientali. Quasi come ulteriore prova di buona volontà, l’Iran ha riaperto nei giorni scorsi i propri siti nucleari agli ispettori Onu, incassando le lodi del direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi.

Insomma, il Medio Oriente sta cambiando e con grande rapidità.

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