(c.l./g.s.) – Al termine dei sei anni previsti dalla legge, il mandato del capo dello Stato libanese Michel Aoun è scaduto il 31 ottobre scorso. Il giorno prima l’89enne uomo politico ha lasciato il palazzo presidenziale per trasferirsi nella sua dimora privata in un signorile quartiere di Beirut. Da 15 giorni, ormai, la carica è vacante.
L’elezione del successore spetta al parlamento monocamerale. La Costituzione prevede che i 128 deputati debbano essere convocati per assolvere a questo compito quando mancano non più di due mesi e non meno di uno alla scadenza del mandato presidenziale (la convocazione è comunque automatica dieci giorni prima di tale data).
La politica si incarta
In ossequio al dettato costituzionale la Camera si è già riunita cinque volte da fine agosto, ma senza trovare la necessaria convergenza su un candidato. Anche perché il suo presidente, Nabih Berri, interpreta in modo singolare l’articolo 49 della Costituzione, che recita: «Il Presidente della Repubblica sarà eletto a scrutinio segreto e da una maggioranza di due terzi della Camera dei Deputati. Dopo la prima votazione sarà sufficiente una maggioranza assoluta». Forzando un po’ la mano, Berri considera ogni seduta per l’elezione del presidente una sessione a sé stante, che quindi si configura come primo scrutinio e richiede la maggioranza dei due terzi. Il che obbliga a trovare un ampio consenso, ma certamente non agevola il processo.
La prossima sessione elettiva della Camera è convocata per il 17 novembre. A complicare le carte in tavola c’è l’ultimo atto da presidente di Michel Aoun che, andandosene, ha firmato un decreto con il quale «accetta le dimissioni» del governo ad interim, guidato dal primo ministro Najib Mikati che sta ancora tentando di dar vita a un nuovo esecutivo dopo le elezioni politiche svoltesi nel maggio scorso. Un atto che forse vuole indurre i deputati ad accelerare la scelta del nuovo presidente, al quale competerà firmare il decreto che designa il primo ministro.
In virtù di accordi politici consolidati per l’attribuzione delle massime cariche dello Stato tra le principali componenti della società libanese, il presidente della Repubblica deve essere un cattolico maronita, il capo del governo un musulmano sunnita e il presidente del parlamento un musulmano sciita.
Considerato lo stallo politico e la conseguente paralisi delle istituzioni, molti reputano difficile attuare le riforme richieste dal Fondo monetario internazionale (Fmi) nel quadro di un accordo che garantirebbe al Libano aiuti per tre miliardi di dollari.
L’appello dei vescovi
Di fronte a questa vacanza del potere esecutivo, in un lungo comunicato diffuso al termine della 55.ma sessione annuale ordinaria presso la sede patriarcale maronita di Bkerke dal 7 all’11 novembre, l’Assemblea dei patriarchi e vescovi cattolici del Libano avverte che «uno Stato senza un presidente cade nella paralisi totale». Per gli ecclesiastici «nessuna priorità è superiore a quella di eleggere il Presidente della Repubblica».
L’assemblea episcopale della scorsa settimana è stata presieduta dal cardinale Bechara Boutros Raï, patriarca dei maroniti. Hanno partecipato, tra gli altri, i patriarchi Ignace Youssef III Younan, dei siro-cattolici; Youssef Al-Absi, dei melchiti; Raphael Bedros, dei cattolici armeni. Presente anche il nuovo nunzio apostolico in Libano, mons. Paolo Borgia.
Con oltre l’80 per cento della popolazione libanese che vive ormai sotto la soglia di povertà, «il Libano sta attraversando la fase più pericolosa della sua storia politica, sociale, economica e finanziaria», denunciano con trepidazione i presuli. Senza un presidente, sottolineano nella loro dichiarazione, «non ci possono essere tutela della Costituzione, controllo sul regolare funzionamento delle istituzioni statali, separazione dei poteri e via d’uscita dalla paralisi politica, economica e finanziaria». La responsabilità di questa situazione grava sui «rappresentanti della nazione e i loro blocchi».
Papa Francesco: «Il Libano torni grande»
A questo proposito, mentre rientrava a Roma dal Bahrein, il 6 novembre scorso anche papa Francesco è tornato a parlare del Libano rispondendo a una domanda dei giornalisti imbarcati sul volo papale. «Il Libano – ha detto – è un dolore per me. Perché il Libano non è un Paese in sé stesso, lo ha detto un papa (san Giovanni Paolo II – ndr) prima di me: il Libano non è un Paese, è un messaggio. Il Libano ha un significato molto grande per tutti noi. E il Libano in questo momento soffre. Io prego, e ne approfitto per fare un appello ai politici libanesi: lasciate da parte gli interessi personali, guardate al Paese e mettetevi d’accordo. Prima Dio, dopo la patria, poi gli interessi. (…) Bisogna sostenere il Libano, aiutare affinché il Libano si fermi in questa discesa, affinché il Libano riprenda la sua grandezza». A margine ricordiamo che un viaggio di Francesco a Beirut sembrava imminente nella primavera scorsa, ma – al pari di quello in Sud Sudan e Congo, già previsto in luglio – è stato rinviato a data da destinarsi, ufficialmente per via delle difficoltà motorie del Papa, che però successivamente si è recato in Canada, Kazakhstan e Bahrein (oltre che all’Aquila, Assisi e Matera) anche servendosi della sedia a rotelle.
Rai chiede di nuovo una conferenza internazionale
Dal canto suo il patriarca maronita Rai, nell’omelia domenicale del 13 novembre, ha stigmatizzato senza mezzi termini «il deplorevole fallimento del Parlamento nell’eleggere un presidente dopo cinque sessioni che sono state una farsa». In un simile contesto il capo della Chiesa maronita è tornato a chiedere la convocazione di una conferenza internazionale per il Libano, che serva a «rinnovare le garanzie dell’esistenza di un Libano indipendente, del sistema democratico, e del controllo esclusivo dello Stato sul territorio, in base a quanto previsto dalla sua Costituzione e da tutte le risoluzioni internazionali riguardo al Libano».
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Aggiornamento: Anche il sesto tentativo di elezione, svoltosi nella mattinata del 17 novembre 2022, è andato a vuoto. Ci si riprova il 24 novembre.
Ultimo aggiornamento: 17/11/2022 12:08