Hilal, Ella, Sagi, Shireeen, Tarek, Amit, Mai, Rami. Sono alcuni dei protagonisti di Children of peace («I bambini della pace», o forse meglio: «I figli della pace»), documentario diretto da Maayan Schwartz, trentaquattrenne regista nato e cresciuto a Neve Shalom – Wahat al Salam (Oasi di pace in ebraico e arabo).
Il villaggio, che sorge su una collina a mezz’ora da Tel Aviv e da Gerusalemme, fu fondato una cinquantina d’anni fa e oggi è una comunità composta da 76 famiglie, per metà ebree e per metà arabe, tutte di cittadinanza israeliana. È l’unico luogo in Israele nel quale ebrei e palestinesi sono vicini di casa per scelta.
Oggi i figli delle prime famiglie che scelsero di abitare qui e di dar vita a un sistema educativo bilingue – in cui entrambe le culture e le narrative avessero eguale spazio – hanno trent’anni, e si raccontano. Lo fanno, a tratti, con leggerezza e ironia; in altri momenti attraverso il silenzio, uno sguardo, una domanda lasciata in sospeso. Sono cresciuti insieme in un contesto del tutto speciale, che Maayan Schwartz definisce «un esperimento sociale unico, che sfida i costrutti sociali del secolare conflitto israelo-palestinese».
Il film – in ebraico e arabo, con sottotitoli in inglese – è stato ufficialmente presentato il 27 maggio scorso a DocAviv, un festival che si svolge a Tel Aviv ed è dedicato ai documentari.
Maayan, allo stesso tempo regista e uno dei personaggi, ha risposto per noi ad alcune domande su questo progetto.
Tra speranza e paura
Gli abbiamo chiesto innanzitutto di sintetizzare l’oggetto del film: «Parla della costante tensione tra speranza e paura. Noi, i bambini di Wahat al Salam – Neve Shalom, siamo una generazione cresciuta in una comunità mista e complessa che ha dovuto mantenere la pace al suo interno in una terra dilaniata da un conflitto sanguinoso e senza fine. Siamo stati testimoni di come la vita come la conosciamo, la nostra educazione, i nostri ideali e i nostri sogni si siano infranti nella realtà. Dilaniati da questioni di lealtà nazionale e reclutamento nell’esercito, da perdite sofferte, instabilità politica, guerra e disordini, noi, i “figli della pace”, ci siamo scontrati con una realtà violenta».
Ognuna delle persone intervistate ha reagito in modo diverso, ma tutti – continua il regista – «raccontano la storia di un luogo che è cambiato e si è evoluto nel corso degli anni. Una storia che cammina sul filo del sogno e della disillusione, della speranza e della disperazione. Chi sono i bambini della pace? Che tipo di adulti siamo diventati? Dove ci collochiamo oggi? Quale futuro sceglieremo?».
Crescere nel conflitto
È dunque una toccante storia di crescita. Interseca il difficile passaggio, spesso uno choc, che segna l’ingresso nel mondo “fuori”, dove ci sono un “noi” e un “voi” fino ad allora sconosciuti. Nei racconti di tutti questo passaggio si verifica con l’inizio della scuola secondaria, in scuole separate (al Villaggio sono presenti un asilo e la scuola primaria, frequentati da bambini ebrei e arabi).
Una storia che fa emozionare mentre ripercorre, con l’aiuto di vecchi filmati e riprese televisive d’archivio, le tappe principali del conflitto israelo-palestinese (dalla firma degli Accordi di Oslo, nel 1993, alle violenze del maggio 2021) e le vicende che – tra entusiasmi e disillusioni – hanno fatto loro da specchio all’interno della comunità.
Non mancano scene riprese da filmati con Bruno Hussar, padre domenicano fondatore dell’Oasi di pace, e Anne Le Meignen, la co-fondatrice scomparsa nel 2020. Di grande tenerezza poi i momenti con Tal, il figlio di due anni del regista.
Un esperimento politico
Il film è anche – e molto – una riflessione sull’identità. O meglio sulle diverse identità che convivono sia nel Villaggio sia all’interno delle singole persone, che siano ebree o arabe.
Omer, il fratello del regista, in una scena girata in un prato da cui si vede la collina con le case di Neve Shalom – Wahat al Salam in lontananza, lo spiega molto bene, in una sorta di sfogo accalorato: «Siamo cresciuti all’interno di un esperimento politico. Ecco come mi sento. Ho vissuto tutta la mia vita con gli arabi: ecco perché parlo la loro lingua e capisco l’“altro”. E così sono stato mandato nel mondo fuori. Gli psicologi parlerebbero di “disturbo dissociativo dell’identità”, ma io posso dire con certezza che questa polarità mi ha aiutato a trovare dentro di me un’armonia».
Maayan ribatte, da dietro la videocamera: «Ma quale armonia? Per quelli di destra, sei un traditore. Per gli arabi, un sionista. Per chi è di sinistra, sei uno di sinistra radicale. O non abbastanza di sinistra…». Il fratello risponde con semplicità: «Chiunque cerca di definirmi, non mi rende giustizia. Ma posso dire che a livello personale, quando incontro una persona, mi sento in grado di gestire tutti questi aspetti di ciò che io sono».
L’accoglienza in Israele
Naturale chiedersi quale sia stata in Israele la reazione a un film di questo tipo, oggetto, tra l’altro, di una dettagliata recensione apparsa sul quotidiano Haaretz a inizio giugno.
Maayan è entusiasta. Non avrebbe mai immaginato un riscontro del genere: «Ogni giorno ricevo messaggi da persone di ogni tipo che mi dicono quanto questo film sia stato importante per loro e quanto le abbia ispirate». Ora attende con curiosità la messa in onda – il prossimo autunno – su Kan 11, il canale pubblico nazionale israeliano. «Le reazioni saranno più ampie e provenienti da tutti i diversi settori della società», aggiunge Maayan. «Sarà interessante sentire il loro punto di vista sul film».
Una diversa prospettiva da raccontare
Non si può terminare senza uno sguardo ai prossimi passi. Maayan ha le idee chiare: «Il mio sogno è quello di andare in giro per il mondo a parlare del mio film, come facevamo noi bambini mandati in missione a rappresentare Neve Shalom – Wahat al Salam. Mostrare una storia alternativa, un’angolatura diversa che la gente non vede mai di questo conflitto senza fine».
Il regista non ha dubbi sul valore che questo progetto riveste per lui: «Quindici anni fa ho lasciato il Villaggio e da allora non sono più tornato. Grazie a questo film, per la prima volta ho avuto il coraggio di tornare nella comunità che avevo lasciato e di affrontare i giovani uomini e donne con cui sono cresciuto. È stata un’opportunità per esaminare le nostre esperienze comuni e le distanze reali e immaginarie che ci separavano. Avevo bisogno di sapere dove essi si collocano ora. E definire insieme il risultato di questo esperimento sociale unico. È ancora difficile per me separarmi dal film e dare un’opinione “oggettiva”. Posso però dire che mi emoziono quando il film e io tocchiamo momenti aperti, personali e difficili della mia infanzia. Naturalmente, tanto per continuare a non essere oggettivo, trovo che le parti migliori del film siano quelle in cui viene inquadrato mio figlio».
L’associazione Amici di Neve Shalom Wahat al Salam – che dall’Italia sostiene il Villaggio – si sta attivando per portare il film anche nelle sale del nostro Paese.
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