Un percorso lungo la storia, a partire dalla questione della memoria della Shoah, delineato con chiarezza e proposto attraverso le voci di sopravvissuti, grandi intellettuali e figure di spicco: da Simone Veil a Hannah Arendt, da Primo Levi a Yehuda Bauer e Raphael Lemkin.
Un itinerario che conduce il lettore dalla faticosa battaglia per il riconoscimento della Shoah – in opposizione alla narrazione dominante del dopoguerra, che valorizzava coloro che avevano resistito e combattuto il nazismo, passando sotto silenzio le vicende di quanti erano periti nei campi, apparentemente senza resistere – alla lettura del genocidio (operata da una parte del mondo ebraico in seguito alla Guerra dei Sei giorni e a un importante convegno di intellettuali a New York, entrambi del 1967) come elemento identitario da preservare, e quindi alle diverse interpretazioni religiose dello sterminio, le quali misero al centro il destino unico del popolo ebraico.
Un cammino che poi si apre alla “rivoluzione” di Yehuda Bauer, l’intellettuale che per primo mise in discussione la visione religiosa della Shoah – da cui era tratta l’interpretazione della sua unicità – chiamando in causa le responsabilità degli uomini. La riflessione dello storico israeliano è sintetizzata nel suo testamento spirituale: «L’Olocausto, cioè il genocidio degli ebrei, non era unico. […] fu il prodotto dell’azione umana e quelle azioni furono prodotte da motivazioni umane. Nessun Dio o Satana era coinvolto. Pertanto, l’Olocausto è stato senza precedenti, non unico. Il che significa che era, o può essere, un precedente, e che, di conseguenza, dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere affinché non diventi un precedente, ma sia un monito».
A Bauer Gabriele Nissim riconosce il merito di aver posto le premesse per una coscienza universale nei confronti di tutti i genocidi, insieme all’«antidoto più importante al meccanismo perverso della concorrenza tra le memorie», della gerarchia sul dolore: «Non c’è differenza – scrive ancora Bauer – tra la sofferenza degli ebrei, dei tutsi, dei pequot (pellerossa d’America – ndr), dei russi, dei cinesi, dei congolesi o di qualsiasi altro popolo che si sia trovato in un omicidio di massa genocidario. Non esiste una gradazione nella sofferenza, non esiste una tortura migliore di un’altra tortura, un omicidio di bambini migliore di un altro omicidio di bambini […] e non esiste dunque un genocidio migliore di un altro».
Passaggi carichi di significato, che Nissim – fondatore e presidente di Gariwo (acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide), istituzione che, anche attraverso la creazione di Giardini dei Giusti, lavora per far conoscere le storie di coloro che, nel mondo, hanno scelto di salvare altri opponendosi a ogni genocidio – riprende nel corso della riflessione, sostenendo che la memoria della Shoah debba essere una lente d’ingrandimento per riconoscere, ostacolare e possibilmente prevenire tutti gli oltraggi alla dignità umana, ovunque si manifestino.
L’autore di questo libro, cui si deve anche la Giornata dei Giusti, approvata dal Parlamento europeo nel 2012 e celebrata ogni anno il 6 marzo, mette inoltre in guardia dal rischio insito nel separare la Shoah dagli altri genocidi, l’antisemitismo dalle altre forme di odio e pregiudizio, i Giusti che salvarono gli ebrei dai Giusti che soccorsero altri esseri umani perseguitati e minacciati di morte: «La preservazione della memoria di quel passato, da mantenere assolutamente intatta, non deve diventare più importante di ogni forma di responsabilità. Se si rinchiude la memoria della Shoah in un ghetto impermeabile a ogni forma di contaminazione, non solo si indebolisce la lotta all’antisemitismo, ma si crea una pericolosa barriera tra gli ebrei e il resto del mondo. La questione ebraica cessa di essere una responsabilità universale dopo le macerie del genocidio, ma diventa solo un problema identitario degli ebrei».
Il volume ha senza dubbio il pregio di far conoscere – anche con l’aiuto di uno stile conciso e lineare – figure, storie ed episodi perlopiù poco noti, ma estremamente rilevanti per le battaglie portate avanti (spesso con incrollabile convinzione e per un’intera vita, come nel caso di Raphael Lemkin, giurista polacco cui si deve l’invenzione e la prima comparsa in ambito internazionale della parola “genocidio”) per contribuire a un mondo più consapevole, giusto e umano.
Ne è un esempio ulteriore la figura di Moshe Bejski, giudice della Corte suprema israeliana, salvatosi da Auschwitz grazie a Oskar Schindler e artefice del Giardino dei Giusti di Yad Vashem a Gerusalemme. Bejski elaborò il significato moderno e laico del concetto di “Giusto”, e fu fautore dell’idea che, in qualunque circostanza, sono le persone “normali”, imperfette e contraddittorie, che possono scegliere di non restare indifferenti di fronte al male estremo.
Interessanti anche i ricordi personali di Nissim che fanno capolino qua e là, fornendo chiavi che permettono di comprendere meglio i temi trattati attraverso le esperienze vissute in prima persona. È il caso, tra gli altri, di quanto si dice a proposito della polemica che spesso sorgeva – fino al 1967 – tra i sionisti che avevano scelto di recarsi in Palestina e la maggioranza degli ebrei rimasti nella diaspora: «I miei genitori mi avevano mandato a frequentare la scuola ebraica di Milano. Dopo una bocciatura, […] vidi come una liberazione la possibilità di iscrivermi in un liceo pubblico come il Berchet. Non sopportavo l’idea di studiare a scuola per diventare più ebreo e sentirmi così diverso dagli altri. Quando alcuni professori mi dissero che un giorno avrei potuto trasferirmi in Israele, mi sembrò una specie di punizione. […] Per me un sionista, in quegli anni, era uno che fuggiva e che rinunciava a lottare per conquistare il rispetto e l’integrazione nel mondo».
Non mancano, infine, gli spunti che varrebbe la pena approfondire autonomamente, offerti innanzitutto dalle molteplici opere citate, anche nel ricco e puntuale apparato di note.
Gabriele Nissim
Auschwitz non finisce mai
La memoria della Shoah e i nuovi genocidi
Rizzoli, 2022
pp. 272 – 19,00 euro