Resta poco tempo per un accordo sul nucleare iraniano e un successo della trattativa dipende a questo punto principalmente dall’amministrazione degli Usa. La questione dei pasdaran, i Guardiani della rivoluzione islamica considerati terroristi dagli Stati Uniti, è uno dei nodi da sciogliere.
Il tempo sta scadendo: l’amministrazione statunitense del presidente Joe Biden dovrà decidere nelle prossime settimane se risuscitare l’accordo del 2015 sul nucleare iraniano (rimozione dell’embargo in cambio di un ridimensionamento controllato del programma atomico di Teheran) o seppellirlo definitivamente. L’Unione Europea preme sull’amministrazione degli Usa ed è riuscita nei giorni scorsi a riaprire uno spiraglio per la trattativa di Vienna, inceppata da quasi due mesi sul nodo del futuro status del corpo dei Guardiani della rivoluzione islamica, i pasdaran. Il viceministro degli Esteri della Ue, Enrique Mora, si è recato a Teheran dal 4 al 6 maggio. «Gli incontri sono andati meglio del previsto», ha riferito poi Josep Borrell, titolare della diplomazia europea. Adesso Mora presenterà le nuove proposte a Washington nella speranza che si arrivi presto a una firma.
Quella dei pasdaran è una questione complessa: l’ex presidente Donald Trump, dopo aver stracciato nel 2018 il precedente trattato – quello firmato nell’era di Obama tra Usa, Onu, Ue e Iran – aveva inserito nel 2019 i Guardiani islamici nella lista delle organizzazioni terroristiche mondiali. Anche se la questione tecnicamente non fa parte del nuovo round di negoziati a Vienna riaperti da Biden, l’Iran ha posto, come condizione per giungere a un eventuale nuovo accordo, la riabilitazione dei pasdaran. Non tanto per una questione di onore: il corpo speciale iraniano, infatti, oltre che in diversi scenari di conflitto in Medio Oriente, è presente capillarmente nella catena produttiva ed economica nazionale. Senza una sua derubricazione dalle liste terroristiche, le sanzioni, pur non legate più alla questione del nucleare, ma derivanti dalla presenza dei pasdaran proprio in quella lista, rimarrebbero in buona misura in vigore per larghi settori dell’economia iraniana.
Da un nuovo trattato l’Iran vuole garanzie totali per la riapertura dei commerci ed eventuali investimenti stranieri, almeno per gli anni rimanenti dell’attuale amministrazione Biden. «Altrimenti, che senso ha per noi firmare un accordo?», ha spiegato uno dei negoziatori iraniani, in un’intervista all’emittente televisiva emiratina al Arabiya. Dopo aver mostrato apertura alle richieste di Teheran, i negoziatori statunitensi sono ritornati sui loro passi in seguito alle proteste di Israele, da sempre attestato su una linea dura verso Teheran, e all’approvazione da parte del Congresso degli Usa di una mozione «non vincolante» contro l’apertura di Biden ai pasdaran. Oltre ai repubblicani, anche alcuni democratici hanno votato l’altolà al presidente in carica. Biden, che pure ha poteri di veto su eventuali bocciature congressuali sul nuovo trattato con l’Iran, teme però contraccolpi pesanti nelle prossime elezioni legislative di medio termine.
Insomma, il presidente statunitense si trova stretto tra una pressione interna crescente e una pressione altrettanto forte dei partner europei che, con la guerra in Ucraina e la decisione di affrancarsi dall’energia russa, vedono nell’Iran una possibile alternativa di rifornimento per l’immediato. La Repubblica islamica, proprio a causa dell’embargo che da anni la penalizza tra i grandi produttori di greggio, ha depositi pieni di barili di petrolio da mettere immediatamente in commercio, e possiede il secondo giacimento al mondo di gas, di fatto sottoutilizzato per mancanza di investimenti (sempre a causa sanzioni). Proprio in questi giorni, i dirigenti iraniani hanno fatto sapere di essere in grado di raddoppiare anche la loro produzione di greggio. Ciò non significa che Teheran sia disposta a cedere sulla questione dei pasdaran: gli ayatollah hanno offerto agli Stati Uniti – secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche occidentali – di tenere per il momento separati i due dossier. La dirigenza islamica guarda con pragmatismo (e con un certo scetticismo, a leggere i giornali locali) alle mosse che farà il loro più che quarantennale nemico, tenendosi strette le alleanze economico-politiche ormai costruite con Mosca e Pechino e continuando a vendere, aggirando le sanzioni, il proprio greggio alla Cina, all’India e a diversi altri Stati non occidentali.
Un appello a Biden perché agisca in fretta per giungere ad un accordo con la Repubblica islamica è arrivato sul Washington Post da Javier Solana, ex segretario generale della Nato ed ex capo della diplomazia della Ue, e da Carl Bildt, ex primo ministro svedese. Senza una normalizzazione delle relazioni con l’Occidente, la Repubblica islamica – avvertono i due politici europei – potrà acquisire in tempi rapidi la capacità di dotarsi di armi nucleari. «Biden deve valutare bene i costi della sua passività vis-à-vis con l’Iran e imboccare una strada per andare avanti, o ci possiamo ritrovare tutti in un altro conflitto che nessuno ha voluto». Intanto i giornali israeliani cominciano a sostenere che l’arricchimento di uranio nei reattori nucleari iraniani sarebbe già arrivato a un punto critico.