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Gerusalemme tra separazione e contaminazione

Giulia Ceccutti
23 marzo 2022
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Gerusalemme tra separazione e contaminazione

Dieci anni dopo la prima fortunata edizione, Paola Caridi ripropone al pubblico italiano la sua «Gerusalemme senza Dio». Non una semplice riedizione, ma un tornare sul discorso già avviato per rileggerlo alla luce degli sviluppi più recenti.


Un arcipelago, «composto da isole e da enclave, da luoghi del potere che comunicano con il resto del mondo e luoghi dei “senzapotere” che, al contrario, hanno con l’esterno solo una comunicazione concessa o vietata da chi amministra lo spazio». Un mosaico costituito da tante tessere e frammenti. Questo e ancora altro è Gerusalemme oggi. Una città «stratificata» (l’aggettivo ricorre spesso in questo saggio), che solo uno sguardo largo può tentare di abbracciare. Tentare, appunto. Come fa, molto bene, Paola Caridi – scrittrice, giornalista e storica – nella nuova edizione aggiornata di Gerusalemme senza Dio, uscita a inizio marzo (a quasi dieci anni dalla prima).

Un libro denso, in cui ogni pagina conserva alta la tensione, perché molteplici sono le storie e i fatti narrati, e perciò anche le «lenti» fornite per leggere il presente, spesso alla luce del passato. Il testo fa comprendere con chiarezza, in primo luogo, la complessità e l’intrecciarsi delle dinamiche e delle numerose identità – etniche, religiose, sociali – che convivono nella città «tre volte santa». Complessità e contaminazione spesso taciute o negate da quanti – religiosi compresi – vogliono invece che Gerusalemme sia un luogo diviso, in cui ogni identità sia ben definibile: «Il fatto è che in molti pensano di possederla (…). E per farla propria indossano le uniformi della esclusività. Sono divise incontaminate, che si fondano su un unico assioma: l’ortodossia, quasi sempre costruita a tavolino. Sono uniformi reali, concrete, con le quali si esce di casa perché la riconoscibilità fa parte integrante del proprio equilibrio».

I cinque capitoli del saggio toccano temi di grande rilevanza, spesso carichi di significati opposti a seconda delle comunità che li interpretano.

Tra i nodi principali, la profonda trasformazione, lungo la storia, di alcuni quartieri, come quello di Musrara (caro all’autrice e situato appena fuori la Porta di Damasco).

Poi quello dei numeri e della composizione della popolazione: Gerusalemme è – dai dati di fine 2020, gli ultimi disponibili – la città più popolosa d’Israele, con «oltre 950 mila abitanti, composta per il 61,5 per cento di israeliani ebrei e di cosiddetti “altri”» e per il 38,5 per cento di palestinesi residenti. Collegato a questo, c’è il tema della pianificazione urbanistica – tesa a modificare la bilancia demografica tra israeliani e palestinesi – in una città nella quale «l’architettura, come tutto il resto, non è mai neutrale».

Quindi gli altri elementi in gioco, tutti interrelati: l’inarrestabile presenza delle colonie, il sovraffollamento della città vecchia, tra le famiglie arabe che non vogliono lasciare le proprie case; le battaglie legali e gli espropri di case palestinesi, in corso da anni, portati all’attenzione internazionale nella primavera del 2021 dal caso delle famiglie del quartiere di Sheikh Jarrah, appena fuori le antiche mura, verso nord.

Un altro aspetto ad essere indagato è quello della precarietà dell’esistenza vissuta dai palestinesi di Gerusalemme. In numero sempre crescente, negli ultimi anni, fanno richiesta di cittadinanza israeliana, spinti dalla precarietà cui sono vincolati dalla propria carta d’identità di colore blu («La blue ID, la residenza permanente, è – paradossalmente – una condizione temporanea, soggetta a revoca da parte delle autorità»).

Interessanti anche i «non luoghi» che le vite degli abitanti intersecano quotidianamente: gli asettici check point israeliani o il muro di Betlemme, con il suo estremo opposto, rappresentato dal grande supermercato Mega, distante neanche due chilometri. Oppure il noto centro commerciale Malha Mall. Spazi, questi ultimi, frequentati da tutti, ebrei (di tutti gli strati sociali) e palestinesi. Terreni neutri nei quali il cameriere palestinese può permettersi di scherzare con la collega ebrea, con un gesto percepito come tutt’altro che normale fuori, nel resto della città. Parentesi che offrono pause dal conflitto, nelle quali ciascuno può – per il tempo della spesa – rilassarsi e sentirsi più o meno a proprio agio.

Queste pagine propongono anche una prospettiva del tutto inedita: la Gerusalemme città dei bambini. Sì, perché un terzo dei suoi abitanti oggi ha meno di quattordici anni. Le loro voci e i loro giochi riempiono le vie, i quartieri, gli spazi degli ebrei come dei palestinesi, ma l’assenza di contaminazione è pressoché totale: «crescono separati, si mescolano poco, non sanno praticamente niente l’uno dell’altro. Eppure, assieme – volenti o nolenti – crescono».

Infine, Caridi si confronta anche, naturalmente, con il tema delle fedi, affrontate con uno sguardo molto personale: «Gerusalemme senza Dio – confida l’autrice – non è rifiuto della dimensione religiosa della città. È il tentativo di vedere oltre la narrazione delle fedi stereotipata, e spesso stantia, di cui siamo passivi fruitori. È il mio tentativo di seguire la vita di chi abita questa città, a prescindere dalla fede o dalla non-fede di ognuno». Tentativo decisamente riuscito.


Paola Caridi
Gerusalemme senza Dio
Ritratto di una città crudele
Feltrinelli, 2022
pp. 256 – 12,00 euro

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