La maggior parte di coloro che vivono a nord delle sue sponde associano il Mediterraneo all’estate, al turismo, alle spiagge. Ma per chi ci vive intorno quel mare non è mai vacanza, ricorda Alberto Negri nell’intenso Bazar Mediterraneo che è molto più di una riflessione frutto di quarant’anni di reportage dai teatri di guerra del Medio Oriente e dei Balcani come inviato del Sole 24 Ore.
Da Algeri a Istanbul passando per Tangeri, Tripoli e Bengasi, Alessandria, Beirut, Salonicco, il viaggio dell’autore tra le città riemerse dalle ceneri dell’Impero ottomano, del post-colonialismo e delle rivolte del 2011 ha la profondità storica e l’agilità abrasiva di chi ha passato anni in prima linea. «Nel Mediterraneo – scrive il giornalista – chi dice la verità e non si arrende alle bugie dei regimi e dei governi, anche di quelli democratici, deve andarsene. Chi rimane in patria è un “esiliato” interno, resta isolato. Il mainstream e il conformismo sono il nostro veleno che inesorabile spegne anche le coscienze. Per questo non bisogna mai guardare le città come appaiono, ma scavare a lungo tra passato e presente».
Un lavoro di scavo che in queste pagine mantiene le promesse. Il viaggio prende le mosse dalla casbah di Algeri, immortalata nel 1966 da Gillo Pontecorvo nel celebre film sulla guerra di liberazione coloniale (nel 2003 racconta, i generali dell’esercito statunitense consideravano La battaglia di Algeri una sorta di manuale della controguerriglia diretta in Iraq da David Petraeus). Siamo all’inizio dei sanguinosi anni Novanta, a trent’anni dalla tragedia a porte chiuse del terrorismo. Pochi potevano seguirla da dentro. «Seguiti a ogni passo e spiati dai servizi, lavorare era quasi impossibile», rammenta Negri. Nessuno ricorda le 200mila vittime, solo in parte uccise dagli islamisti, dal momento che moltissimi vennero fatti fuori «in una “guerra sporca” dove le forze di sicurezza punivano la popolazione che aveva votato e sostenuto l’ascesa del Fronte islamico di salvezza, vincitore del primo turno delle elezioni nel dicembre del ’91, poco prima del colpo di Stato dei generali che diede il via alla mattanza». Anni di Piombo che affondavano le radici nella più lunga e violenta delle lotte anti-coloniali – con un milione di morti tra il 1954 e il 1962 –, nella quale anche l’Italia ebbe un ruolo, perché l’Eni di Enrico Mattei finanziò il Fronte di liberazione nazionale.
Quella vicenda, rimarca Alberto Negri, i francesi se la legarono al dito e anche per questo nel 2011 vollero farla pagare, ignorando gli interessi italiani in Libia e bombardando con americani e britannici il colonnello Gheddafi, che sei mesi prima era stato accolto in pompa magna a Roma. Nell’agosto 2010 «nessuno avrebbe mai potuto immaginare la fine così feroce e crudele, quasi una metafora della sua vita», che Negri raccontò da Tripoli nell’ottobre 2011. Oggi pochi ricordano come siano stati in tanti, dentro e fuori il paese, a godere per decenni i favori del rais libico, e come abbia lasciato in eredità svariate centinaia di miliardi di investimenti all’estero: «segno tangibile che non era stato certo un emarginato».
Tra i fili invisibili che legano questi Paesi c’è anche la scomparsa misteriosa proprio in Libia nel 1978 di un uomo che avrebbe potuto cambiare il corso della storia del Libano e della regione se non fosse stato probabilmente assassinato: l’ayatollah sciita Musa al-Sadr. Uomo del dialogo con le altre fedi e con l’Occidente – persiano ma libanese di adozione, fondatore del movimento Amal (Speranza), attivo nel sud del Libano dove aveva fondato scuole, orfanotrofi e ambulatori in collaborazione con i cristiani – pagò con la vita un’intervista in cui sosteneva la necessità di trattare con Israele in anni in cui nel mondo arabo dominava il «fronte del rifiuto». Una vicenda, la sua, legata a uno dei segreti più custoditi della Siria contemporanea e di Beirut: quello della minoranza sciita degli alauiti, delle loro origini, dei loro misteri e della loro ascesa con la dinastia degli al-Assad a Damasco, che Negri aveva già indagato nel pluripremiato Il musulmano errante (2017).
Nel libro c’è tanto altro: le memorie perdute di Alessandria d’Egitto nei ricordi degli italiani lì residenti da generazioni; Salonicco e il ruolo cruciale fra Grecia e Turchia dei ma’min, seguaci musulmani di un presunto Messia ebreo morto nel 1676: Sabbatei Zevi convertito all’islam con il nome di Aziz Mehmed Efendi; la piazza Taksim di Istanbul carica di storia e di memoria. Volti e luoghi che offrono lo spunto per ricostruire gli intrecci di una regione al centro di interessi geostrategici globali.
Il saggio del giornalista 64enne, tra i maggiori esperti di politica internazionale in Italia, è espressione e allo stesso tempo omaggio ad un giornalismo di qualità, oggi sempre più difficile da perseguire nella crisi che ha investito il settore, nel ricordo di tanti colleghi oggi messi a tacere e incontrati in Algeria, Marocco, Libano, Turchia. «L’informazione – diceva il grande giornalista cristiano ortodosso Ghassan Tueni – è il vero strumento per la liberazione dei popoli, l’autodeterminazione e la democrazia». Qualcuno, chiosa Negri, lo considera il padre delle Primavere arabe, giunte un anno prima della sua morte a 86 anni.
Alberto Negri
Bazar Mediterraneo
Gog Edizioni, 2021
pp. 150 – 15,00 euro