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Tentazioni turche di fronte alla crisi afghana

padre Claudio Monge
26 ottobre 2021
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In Turchia – che verso l’Occidente gioca l’ambiguità di un rapporto ben integrato nelle leggi del business, e del sospetto per cultura e ideali moralmente riprovati – la «svolta» afghana dei media filo-governativi è stata vista piuttosto favorevolmente.


Vent’anni di guerra per «democratizzare il Paese», svaniti in pochi giorni, constatando che non si è riusciti neppure a stabilizzarlo e tanto meno a capire fino in fondo chi sono davvero gli attori in gioco nel caos che vi regna. Ora la nuova missione in Afghanistan sembra essere quella di esorcizzare gli interlocutori chiamati taliban, sperando di renderli meno indigesti a occidente e sognando che dicano il vero nelle dichiarazioni a favore dei media!

Nel contesto turco, che verso l’Occidente gioca l’ambiguità del rapporto ben integrato nelle leggi del business, e del sospetto per cultura e ideali moralmente riprovati, la presentazione della «svolta» afghana dei media filo-governativi è stata piuttosto favorevole. Ma è possibile credere nel connubio tra teocrazia e modernità? È il problema di sempre, come già lucidamente evidenziava il cardinale Carlo Maria Martini nel 1990. Lo scoglio è il prevalere di una tendenza fondamentalista, che cerca di appropriarsi dei risultati tecnici e del progresso, frutti della modernità, ma staccandoli dalle loro premesse culturali occidentali con la volontà di risolvere, nella linea della tradizione antica, tutti i problemi politici o sociali per mezzo della religione.

Non è una questione solo afghana, ma un approccio attorno al quale ruotano il sistema iraniano e gran parte delle teocrazie sunnite. Il modo di trattare le donne e dar loro spazio nella sfera pubblica è la cartina di tornasole della problematicità di questo orientamento. La Turchia attuale non è ovviamente una teocrazia, ma un regime autoritario fondato su un nazionalismo esasperato che si alimenta anche con uno strumentale riferimento alla religione e ai valori che da essa emergono. L’opinione pubblica turca, tuttavia, sta guardando alla crisi afghana da un angolo prospettico molto particolare e poco conciliante.

In Turchia il risentimento contro i rifugiati effettivi, oltre 5 milioni (di cui 3,7 milioni di siriani, ma anche almeno 350 mila afghani, in gran parte arrivati da campi di profughi in Iran prima del ritorno dei talebani a Kabul) è cresciuto esponenzialmente, determinando discorsi e talvolta crimini d’odio. C’è il timore che un afflusso ulteriore di profughi nel Paese possa avere effetti economici e sociali devastanti, in un quadro economico già molto difficile. Come se non bastasse, i principali partiti di opposizione Chp (centro-sinistra) e Iyi (conservatore e laico) hanno colto l’occasione per una campagna contro la politica dei rifugiati del governo, considerata un «problema di sopravvivenza per la Turchia». L’opposizione non aveva protestato per l’invio di truppe turche in Siria, Iraq e Libia, ma lo ha fatto per l’Afghanistan.

Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha detto che «la Turchia non è il deposito dei rifugiati in Europa», ma ha aggiunto che il Paese «non può respingere coloro che sono arrivati al confine». I turchi secolari, in particolare, temono una strategia pericolosa nella prospettiva delle elezioni del 2023. Colui che in passato non ha esitato a concedere centinaia di migliaia di passaporti a rifugiati siriani per farli diventare «elettori last minute» e arginare una caduta di consensi, potrebbe servirsi di ex-talebani e combattenti dell’Isis accolti dai campi profughi iraniani, per alimentare una tensione sociale ad hoc, che gli permetta nuove svolte autoritarie sotto la copertura di leggi speciali, che congelino a tempo indeterminato l’attività parlamentare, essenziale per la democrazia.

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