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Dare forma all’amore di Dio

Giovanna Franco Repellini
18 ottobre 2021
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Dare forma all’amore di Dio
La basilica realizzata da Barluzzi sul Monte Tabor in Galilea. (foto Colla Pino/CTS)

La vicenda umana e professionale di Antonio Barluzzi ruota attorno alla sua esperienza di fede. Per tutta la vita ha cercato di tradurre in forme e materia l’idea che lo ha guidato: «Fare di Cristo il cuore del mondo». Una tensione che si è realizzata nelle sue tante opere.


Quando nel 1958 Antonio Barluzzi lascia in modo definitivo Gerusalemme è un uomo molto stanco, fisicamente provato e umanamente amareggiato a causa della mancata realizzazione del suo progetto per la basilica di Nazaret. In realtà guardando indietro la sua vita avrebbe dovuto essere molto fiero per quanto era riuscito a realizzare tra mille difficoltà in quasi 50 anni di lavoro sudatissimo. Se ne torna a Roma con le sue casse di disegni e documenti in cui era raccontata tutta la sua vita e le sue passioni tormentate. Alle suore calasanziane, quando muore nel 1960, lascia i suoi ultimi averi.

La basilica del Tabor durante la costruzione (1919-1924). (archivio Cts)

Perché partire da una triste fine per ricordare Antonio Barluzzi a sessant’anni dalla sua morte? Probabilmente questo finale malinconico e contrastato ha determinato in parte l’oblio che per molto tempo ha oscurato le sue opere, nascondimento per fortuna svelato da una decina di anni di studi universitari, pubblicazioni, convegni e una mostra tenutasi a Gerusalemme a cura del Christian Information Center nel 2010.

Ormai conosciamo la sua storia, la sua arte e la sua capacità di coinvolgere artisti e artigiani valenti, tuttavia ripercorrendo la sua vita abbiamo ancora la possibilità di conoscere alcune sue opere, oltre alle basiliche, soprattutto realizzate tra la fine degli anni Venti e metà degli anni Trenta. Sono lavori non molto documentati, ma che comunque ci permettono di addentrarci ulteriormente nel suo pensiero e allargare i confini del nostro interesse.

La basilica delle Nazioni (o dell’Agonia) al Getsemani. (archivio Ets)

Come sappiamo Antonio Barluzzi nasce a Roma nel 1884 da una buona e numerosa famiglia della borghesia romana piuttosto tradizionalista e conservatrice, ma egli era un giovane desideroso di sperimentarsi in azioni di valore e di forza trascendente, al di sopra della sua realtà contingente: «L’incertezza mi dà agitazione e mi strazia», scriveva da ragazzo cercando risposte nella fede e nella religione. Questo stato d’animo inquieto, insoddisfatto di sé lo accompagnerà a periodi alterni per tutta la vita, emergendo in modo doloroso nei momenti in cui non si sente capito, soprattutto negli ultimi anni in cui è provato anche da malattie.

Si forma a cavallo del secolo e per certi versi mantiene un animo medioevale, ispirato a una vita di santità, penetrata dal dualismo tra il bene e il male, ma al contempo immaginativa e fortemente simbolica. La sua ricerca e il suo lavoro sono sempre ricchi di mille temi capaci di creare narrazioni fantastiche, rappresentazioni e modelli che cercano la fusione tra il racconto evangelico, i luoghi e le forme architettoniche. Nel Medioevo la cultura ha connotati di forte unitarietà, con la teologia al vertice della piramide e delle arti secondo il principio agostiniano della reductio artium ad theologiam. L’idea che ne deriva è quella di un itinerario che l’uomo è chiamato a compiere verso Dio, un percorso che egli trova nella costruzione dei santuari in Terra Santa, dove la sua ricerca diventa concreta e si fa pietra e colore. L’attrazione verso il Medioevo è anche legata alla cultura storicista di quel periodo, già forte nell’Ottocento in Europa con i movimenti dei preraffaelliti e dei nazareni e in architettura con le riproposizioni eclettiche neogotiche e neoromantiche.

Due bozzetti autografi di Antonio Barluzzi per le absidi della basilica dell’Agonia.

Antonio si laurea in ingegneria nel 1907 e subito inizia lavorare con il fratello Giulio, anch’egli ingegnere, per alcune cappelle al cimitero del Verano, poi si trasferisce a Gerusalemme nel 1912, sempre con il fratello, per collaborare al progetto e alla costruzione dell’Ospedale italiano per l’Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (Ansmi), lavoro programmato nel quadro delle grandi opere edilizie messe in atto dai Paesi europei nella Città Santa. I due fratelli, nella scia della corrente neo-medievalista e per celebrare le tradizioni italiane, si ispirano a monumenti di grande fama: in particolare, all’edilizia toscana, al Palazzo Vecchio di Firenze e anche al Municipio di Siena. Durante la prima guerra mondiale l’ospedale viene occupato dagli inglesi e viene trasformato nella base della Royal Air Force fino al 14 maggio 1948, quando il neonato Stato di Israele lo acquisisce e vi installa degli uffici del ministero dell’Istruzione, costruendo di fronte un grande edificio massiccio e compatto di ispirazione vagamente sovietica. La piazza che si trova fuori dalle mura appare oggi per queste architetture frontali e contrastate particolarmente interessante.

La sede del Patriarcato armeno-cattolico presso Beirut. (archivio Cts)

Tornato in Palestina alla fine della guerra, dopo il servizio militare in Italia, gli fu proposto dal Custode di Terra Santa, fra Ferdinando Diotallevi, di progettare e costruire le chiese del Monte Tabor e del Getsemani, costruzioni rese possibili anche da sottoscrizioni internazionali. Incarico che gli diede una grande felicità e forza d’animo perché considerava la costruzione dei santuari come la vera missione della sua vita. La costruzione della basilica della Trasfigurazione sul Monte Tabor durò cinque anni (1919-24) ma molto lungo fu anche l’iter progettuale che era già iniziato prima della guerra con un incarico al fratello Giulio. Uno sperimentalismo estetico che nel dopoguerra vide sia l’architetto che padre Diotallevi alla ricerca di uno stile e di una forma che potesse configurarsi come una proposta complessiva capace di dare un senso unificante alle numerose opere che la Custodia di Terra Santa si accingeva a realizzare: progetti che dovevano legarsi intimamente ai luoghi sacri ricalcandone le tracce archeologiche e rendendo evidenti le caratteristiche della spiritualità francescana nei luoghi del Vangelo.

Schizzi per la realizzazione di confessionali per la cappella dell’ospedale di Amman.

Le due opere erano molto complesse anche per motivi politici e finanziari, ma tra padre Diotallevi e Barluzzi si era creata una sintonia spirituale che imprimeva determinazione al loro agire. All’architetto non mancava certo l’abilità nell’organizzare il cantiere e nel dirigere i lavori: il Monte Tabor era isolato, mancava anche la strada per arrivarci e l’acqua doveva essere portata con cisterne a dorso di mulo; inoltre non vi era una manodopera locale capace, per cui Barluzzi fece venire dall’Italia vari scalpellini, maestranze e artisti, iniziando rapporti professionali che in alcuni casi dureranno tutta la vita.

Prima di giungere a un progetto definitivo furono fatte molte prove, infine l’ispirazione progettuale venne dalla chiesa di San Simeone Stilita vicina ad Aleppo sia per l’importanza della Trasfigurazione nella liturgia siriana sia perché le tre tende, simbolo del racconto evangelico, potevano essere ben rappresentate nella tripla partitura della facciata della chiesa paleocristiana che l’architetto riprende nella sua basilica. L’iconologia della decorazione interna è da attribuire a padre Diotallevi con i bei mosaici di Rodolfo Villani e vetrate di Cesare Picchiarini. Aldilà delle scelte architettoniche, due cose si individuano nel lavoro di Barluzzi: la sensibilità paesaggistica e la forte poetica legata alla luce individuata come ascesi, caratteristiche in cui fu sempre maestro.

Barluzzi rappresenta un altare con lapis e pastelli colorati su carta.

Nello stesso periodo 1919-1925 inizia la costruzione della chiesa del Getsemani, sul monte degli Ulivi, costruita nel luogo dell’agonia di Cristo, costruzione che mostra in modo particolare cosa l’architetto intendesse per architettura simbolica: in questo caso la figurazione dell’immagine di Christus dolens et triumphans: la sofferenza di Gesù e il suo dolore vengono rappresentati da una costruzione d’ispirazione bizantina che evoca la chiesa primitiva, con dodici piccole cupole. La gloria è invece ben rappresentata dall’architettura della facciata ispirata a un arco trionfale romano. All’interno la chiesa è penombrata e malinconica per l’effetto di dieci finestroni in lastre di marmo traforate e trasparenti, inframmezzate da spessi vetri opalescenti in otto toni di viola, opera sempre di Cesare Picchiarini. Questa basilica fu più costosa del previsto e le decorazioni interne si protrassero per parecchi anni, fatto che provocò molti malumori e accuse all’architetto, anche perché era subentrato un nuovo Custode, fra Aurelio Marotta con cui non aveva sintonia di ideali.

È una lunga storia già narrata, che procura varie tristezze all’autore, facendone emergere le fragilità psicologiche della sua giovinezza. Le tensioni che si erano create per il completamento della basilica del Getsemani e per i costi complessivi determinarono un rallentamento professionale che fu parzialmente mitigato dalla costruzione della piccola chiesa di Gerico e dal restauro della chiesa della Flagellazione che iniziò nel 1928, dove all’interno, nel presbiterio, l’architetto pone tre grandi vetrate ad arco e una cupola a mosaico con una corona di spine e fiori trasparenti di grande qualità artistica realizzate da Cesare Picchiarini e Duilio Cambellotti. Salendo sul tetto per capire come aveva fatto a dare quella luminosità, si notano piccole vetrine poste all’esterno a protezione delle tessere vetrose: Barluzzi era sempre molto pratico e attento ai dettagli.

Veduta interna della chiesa del Dominus Flevit, sulle pendici del Monte degli Ulivi a Gerusalemme.

In quel periodo di stasi nella costruzione dei santuari che durerà fino a metà degli anni Trenta, Barluzzi, che in realtà era assai coraggioso, sceglie di muoversi in un territorio più vasto assumendo una serie di incarichi ad Amman da parte dell’Ansmi, con cui già aveva lavorato. Scrive nel 1930: «In attesa che qui fossero giunte le decorazioni per la Flagellazione, mi sono dedicato a finire l’ospedale di Amman in Transgiordania e debbo confessare che ho il difetto di buttarmi a capofitto nei lavori che intraprendo per vederne al più presto la fine». Si tratta di incarichi per vari edifici: due ospedali, uno ad Amman e l’altro a Kerak, presso la sponda giordana del Mar Morto. Sono progetti molto più modesti, ma dove comunque si fecero venire marmi dall’Italia, dalla ditta Petruccioli fornitore delle basiliche. Anche se di ridotte dimensioni sono istituzioni tutt’oggi funzionanti e oggetto di recenti ammodernamenti: allora non esisteva nessun centro sanitario in tutta la regione e l’ospedale di Amman, guidato dal medico Fausto Tesio, è il più antico del regno hashemita.

Nello stesso periodo, ricordiamo sempre ad Amman la chiesa greco cattolica, una semplice chiesetta in stile romanico a tre navate di cui restano schemi progettuali. Inoltre la Sede archeologica, di cui conosciamo la data di consegna, il 25 febbraio 1936, per una lettera indirizzata al console generale d’Italia, Mariano de Angelis. Fu un piccolo incarico statale, che comportò la ristrutturazione della casa del dottore a cui fu aggiunto un rivestimento in pietra con un’edicola sovraporta con i fasci littori. Più interessante, sia per dimensione che per la ricerca formale, l’edificio del Patriarcato armeno-cattolico costruito presso Beirut di cui abbiamo qualche informazione da una lettera del 1930 scritta alla sorella: «Ultimamente per servire gli armeni ho domandato alcune foto e cartoline dei loro monumenti. Poi mi capita il volume dell’Orsi sulle chiese Basiliane dell’Italia meridionale e noto analogia da far stupire». Le persecuzioni inflitte ai cristiani dell’Anatolia e in particolare agli armeni, negli anni seguenti alla nascita dell’odierna Turchia, portarono decine di migliaia di profughi cristiani a fuggire verso la Siria e il Libano.

Il santuario sul Monte delle Beatitudini, in Galilea. (foto J. Kraj/Cts)

L’aiuto alla Chiesa armeno-cattolica stava a cuore a Roma dove nel 1928 vi era stata una riunione dei vescovi sopravvissuti al genocidio. L’edificio costruito da Barluzzi fa pensare a un investimento significativo. Anche in questo caso l’architetto cerca ispirazione nello stile tradizionale armeno caratterizzato da scansioni geometriche, coperture coniche sia dei tamburi che dei campanili, nicchie diedriche ed elementi decorativi triangolari determinati da strutture costruttive a falda.

Interessante è anche l’Ospizio abissino-cattolico costruito a Gerusalemme anche con un sussidio del governo italiano. Si tratta di un edificio a tre piani con un lungo fronte in pietra bugnata e nicchie triangolari.

In quel periodo Barluzzi soggiorna spesso sul lago di Tiberiade in una proprietà dell’Ansmi, occupandosi anche di problemi agricoli e di bonifica del sito dove nel 1935 ottiene l’incarico per la costruzione della chiesa delle Beatitudini. L’impostazione progettuale guarda sempre alla storia, in questo caso al Quattrocento toscano, ma tutta la struttura è semplificata e improntata alla ricerca della serenità e di pace in ricordo del racconto evangelico, ma probabilmente anche per un suo bisogno di armonia dopo la drammaticità della progettazione e costruzione del Getsemani. In riferimento alle otto Beatitudini di Cristo la chiesa è ottagonale e l’interno è molto chiaro e non decorato. Tutto attorno all’edificio c’è un portico per poter godere, al riparo dal caldo, il meraviglioso paesaggio lacustre.

Un periodo questo della vita di Antonio decisamente positivo perché dal nuovo Custode, padre Alberto Gori, gli giunge l’incarico per la costruzione del santuario della Visitazione nel luogo dove per tradizione era avvenuto l’incontro tra Maria ed Elisabetta. L’esilio era ormai finito: «I santuari tornarono impensatamente nelle mie mani», scrive. Si trasferisce a Ein Karem dove abita durante i lavori che segue giorno per giorno insieme a padre Bellarmino Bagatti, interessato ai ritrovamenti archeologici e anche all’impostazione iconografica. Probabilmente in questo periodo lascia lo studio professionale di Gerusalemme e assume uno stile di vita sempre più monastico, vivendo nei pressi dei suoi cantieri. Il periodo storico si fa sempre più difficile: la rivolta araba, la guerra mondiale e il successivo conflitto arabo-israeliano ostacolano i lavori. Durante la guerra Barluzzi rientra in Italia e lavora ai disegni della basilica dell’Incarnazione a Nazaret che egli riteneva dover essere l’opera più importante della sua vita. Tornato in Terra Santa è ripreso da forti malinconie: nel 1953 era morto il fratello Giulio e aveva perso la vista da un occhio. Tuttavia non smette di lavorare, iniziando l’austero edificio di San Lazzaro a Betania e costruendo le piccole chiese del Campo dei Pastori e del Dominus Flevit, due costruzioni completamente originali e cariche di simbolismo.

Per Barluzzi la vita fu sempre una ricerca di purificazione dell’anima che gli consentisse di dedicarsi compiutamente alla vita spirituale, un desiderio di ascesi che lo fece molto soffrire ma gli permise di conoscere momenti di grande intensità creativa trasformando i suoi sentimenti in forme compiute.

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