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La serie tivù turca che conquista l’islam asiatico

Elisa Pinna
1 ottobre 2021
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Dirilis Ertugrul, la serie televisiva prodotta nel 2014 dalla Turchia, e rilanciata da Netflix, miete un successo inatteso con le sue oltre 500 seguitissime puntate. L'eroe Ertugrul è un capo tribale dell'Anatolia del Tredicesimo secolo.


È divenuta popolare in mezzo mondo, dall’America Latina all’Africa del Sud, ma la sua terra di conquista culturale è stata soprattutto l’Asia centrale musulmana, dove ha tenuto incollati agli schermi negli ultimi tre anni centinaia di milioni di persone tra Pakistan, Afghanistan e repubbliche ex sovietiche. Parliamo di una serie televisiva prodotta nel lontano 2014 dalla Turchia, comprata e rilanciata da Netflix, e giunta ormai a più di 500 puntate, in attesa di macinarne chissà quante altre nella sesta stagione che ripartirà tra fine del 2021 e l’inizio del 2022. Il suo titolo è Dirilis Ertugrul (La risurrezione di Ertugrul), un nome che diceva poco o niente agli stessi musulmani prima del successo avuto dalle gesta del protagonista, un capo tribale islamico dell’Anatolia del Tredicesimo secolo, ritenuto il padre di Osman, il fondatore dell’Impero Ottomano.

Se, da un punto di vista strettamente storico, Ertugrul era un personaggio oscuro e minore di un’epoca caotica e confusa, nella fiction diventa un condottiero imbattibile mosso da una straordinaria determinazione nel perseguire la giustizia e la dignità per la sua gente. I suoi nemici, i “cattivi” sono i mongoli e i cristiani bizantini e latini. Forse è questo uno dei motivi per cui, in alcuni Paesi occidentali, non è più disponibile su Netflix. Da ogni scontro, da ogni tradimento, da ogni agguato Ertugrul emerge sempre più forte, anche grazie alla sua fede.

La serie è stata spesso decritta come una Games of Thrones islamica, in cui i musulmani sono i vincenti e i giusti. Piena di colpi di scena e di ritmo, girata senza risparmiare mezzi ed effetti in luoghi suggestivi non lontano da Istanbul, La risurrezione di Ertugrul si è trasformata in uno strumento di soft power utilizzato da diversi leader politici regionali per tentare di ridar vita a una identità islamica propositiva e a un jihad di riscossa, da contrapporre allo stereotipo mediatico e cinematografico del musulmano terrorista.

A intuirne immediatamente le potenzialità è stato il capo di Stato turco Recep Tayyip Erdogan, che ne ha sponsorizzato la produzione e ha frequentato con assiduità il set. Lo sceneggiatore e ideatore di Dirilis Ertugrul, Mehmet Bodzag, un uomo del presidente e militante del partito conservatore Giustizia e Sviluppo (Akp), è riuscito nell’impresa di creare una storia avvincente per il grande pubblico, di intercettare i desideri di una parte del mondo musulmano e, allo stesso tempo, di dare voce in modo subliminale e accattivante alle aspirazioni panislamiche e neo-ottomane dell’attuale dirigenza turca.

Ciò che nessuno si aspettava è stato il successo incredibile che la serie ha avuto in Pakistan ed Afghanistan: le prime cinque stagioni, tradotte in urdu, hanno galvanizzato oltre 133 milioni di spettatori pachistani, un record assoluto, quasi che la nazione nata a metà del secolo scorso dalla spartizione dell’India britannica non aspettasse altro che un leader mitico – poco importa se storicamente quasi immaginario – in cui identificarsi. Ogni puntata è diventata una sorta di rito familiare. Ai neonati sono stati dati i nomi dei protagonisti della serie. In diverse città pachistane, tra cui Lahore, sono state innalzate statue di Ertugrul, in sella al suo cavallo e con la spada sguainata. Il primo ministro pachistano Imran Khan, ex campione di cricket ed ex playboy trasformatosi in un paladino dei valori islamici e in un militarista, ha esortato i giovani del Paese ad imparare dagli antichi eroi compagni di Ertugrul, arrivando a fantasticare – strizzando l’occhio ai gruppi islamisti più radicali presenti nel Paese – un Pakistan «che prenda ad esempio la prima società musulmana creata dal profeta Maometto a Medina». La serie è stata accolta con eguale entusiasmo anche in Afghanistan, dove è stata rilanciata su una cinquantina di emittenti private e pubbliche e tradotta nelle due lingue ufficiali, il dari (la versione afghana del farsi) e il pashto. L’aspettativa per la nuova stagione è alta a Kabul come altrove, nonostante i drammatici capovolgimenti politici avvenuti nell’estate. Tra mesi dovrebbe anche qui ripartire, talebani permettendo.

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