Alla vigilia dei vent’anni dall’attentato alle Torri Gemelle di New York, Laura Silvia Battaglia ha messo su carta, in un’edizione riveduta e ampliata, un libro già pubblicato nel 2016 in formato elettronico.
L’11 settembre 2001 cambiò di certo anche la vita dell’autrice, che per cercare di capire le origini di quella violenza terrorista si trovò a vivere in Yemen tra il 2012 e il 2015. Lì comprese meglio «il ruolo chiave degli Stati Uniti nella regione, e anche le modalità della loro politica internazionale, non solo relative agli aspetti di contrasto al terrorismo». Da lì ebbe modo di entrare in contatto «sia con le famiglie delle vittime di Ground Zero che con le famiglie di coloro che vennero detenuti a Guantánamo (il discusso centro di prigionia allestito in una base americana a Cuba – ndr), ritenute da tutti le famiglie dei carnefici». «Lì – ammette la giornalista italiana – ho scoperto una scala di grigi molto articolata e ho capito come, in nome della giustizia necessaria, si siano perpetrate altre innumerevoli ingiustizie, spesso basate su dati scorretti e false testimonianze».
Nel libro prendono la parola soprattutto arabi, ma non solo. Tra le testimonianze che popolano queste pagine ci sono anche avvocati e attivisti statunitensi, perplessi o apertamente contrari alla linea degli Usa nella lotta al terrorismo islamista durante l’ultimo ventennio. Una strada che ha dischiuso le porte a molti abusi e torture; alla sospensione dei diritti e delle comuni norme di procedura penale; a guerre che hanno accresciuto e diffuso, anziché stroncarla, la minaccia terroristica in varie parti del mondo.
«Dal 2002 – ci dice l’autrice –, circa 780 uomini sono detenuti nella prigione militare americana di Guantánamo Bay, a Cuba. Ora ne restano 39». E non è ancora finita, perché la promessa del presidente Barack Obama di smantellare quella prigione rovente non è ancora stata mantenuta, per via delle molte opposizioni che ha incontrato.
Nella maggior parte dei casi, osserva Laura Silvia Battaglia, chi ne è uscito non ha fatto ritorno alla propria casa, o al Paese in cui fu arrestato o sequestrato (i cinque talebani nominati ministri in Afghanistan, nel governo insediatosi in settembre, rappresentano evidentemente delle eccezioni). Per molti ex detenuti l’uscita dalle gabbie di Guantanamo è stata possibile solo dopo accordi tra il governo di Washington e Paesi terzi, come l’Italia, che si sono impegnati a trasferirli sul proprio territorio, ma in condizioni di sicurezza e di quasi isolamento. È il caso dello yemenita Faiz Ahmad Yahia Suleiman, presunto artificiere di al Qaeda, che Battaglia ha incontrato in Sardegna, dove ora vive tenendosi alla larga da moschee o da altri musulmani.
Lo Yemen, a fine anni Novanta, è stato tra i Paesi che – soprattutto tramite i suoi emigrati – ha fornito più manodopera al terrorismo antiamericano, segnala la giornalista. Come si spiega? Nel libro dice la sua Hamoud al-Awdi, docente di Sociologia all’Università di Sana’a: «Stiamo parlando di un Paese che dagli anni ’90 in poi ha conosciuto una flessione economica indubitabile, mentre il vicino saudita, come, del resto, l’Iraq e l’Iran si arricchivano smisuratamente, e questo ha determinato sia la spinta migratoria, più verso i Paesi vicini che verso l’Europa o gli Stati Uniti, sia forme di assorbimento e ricezione di nuove narrative identitarie, per esempio, quella religiosa».
Tornando al lembo di Cuba su cui sventola la bandiera a stelle e strisce, Larry Siems – attivista per la difesa dei diritti umani e della libertà di espressione – ne è convinto: Guantanamo non chiuderà mai – dice – perché «custodisce segreti terribili che la chiusura definitiva del sito costringerebbe gli Stati Uniti a rivelare quasi completamente». (g.s.)
Laura Silvia Battaglia
Lettere da Guantánamo
Dall’inferno al limbo, dove sono i detenuti del 9/11
Castelvecchi editore, 2021
pp. 96 – 13,50 euro