Quasi all’ultimo minuto! Israele aveva tempo sino a fine luglio per delineare i propri obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, pena la cancellazione del Paese dal rapporto internazionale redatto dall’Onu e previsto dagli accordi di Parigi del 2015. Il governo ha adottato le sue decisioni domenica 25 luglio.
Lo Stato ebraico si impegna a ridurre le proprie emissioni di anidride carbonica (CO2) di almeno il 27 per cento entro il 2030 e dell’85 per cento entro il 2050. Il valore di riferimento è il livello di emissioni registrato nel 2015. «Questo è un momento storico per la salute, l’ambiente e le generazioni future», ha affermato la ministra per l’Ambiente Tamar Zandberg.
L’enfasi della dichiarazione nasconde a fatica la mancanza di ambizione di un testo che si trascinava dal 2020 negli uffici dei ministeri israeliani incapaci di giungere a un compromesso su diversi obiettivi strategici. Sebbene rimangano significativi rispetto ai precedenti impegni assunti in materia ambientale, questi obiettivi sono meno ambiziosi di quelli dichiarati dalla maggior parte dei Paesi occidentali.
Obiettivi insufficienti
Gli Stati Uniti, ad esempio, si sono impegnati a ridurre le proprie emissioni di CO2 del 50 per cento entro il 2030 e del 100 per cento entro il 2050. Anche la Commissione europea ha fissato, per gli Stati membri dell’Unione, un obiettivo di riduzione della CO2 di almeno il 55 per cento entro il 2030 e del 100 per cento a metà del secolo.
>>> Leggi anche: Sole e mare potrebbero far decollare il Medio Oriente
Dall’ultima versione del testo di programmazione israeliano sono state tagliate clausole importanti, «a causa della forte pressione esercitata dai ministeri dell’Energia e delle Finanze», spiega Zafrir Rinat, in un articolo di analisi pubblicato dal quotidiano Haaretz.
Uno degli obiettivi più importanti è stato cancellato: chiedeva a Israele di produrre il 40 per cento del suo fabbisogno di energia elettrica con energie rinnovabili entro il 2030 e il 95 per cento entro il 2050. In pratica, lo Stato ebraico mantiene il suo obiettivo originario di produrre il 30 per cento della sua elettricità da fonti rinnovabili entro la fine del decennio. Nulla di più.
Secondi al mondo per il consumo di plastica usa e getta
La riduzione dell’impronta di carbonio di un Paese richiede anche meccanismi di incentivazione economica. Tuttavia, diverse proposte apparse nella precedente bozza del piano sono saltate. Come, ad esempio, la tassazione della tonnellata di carbonio prodotta dalle fabbriche o quella sugli scarti. «Cosa che avrebbe incoraggiato il riciclaggio o la combustione dei rifiuti per produrre energia», afferma Zafrir Rinat.
>>> Leggi anche: Demografia, in trent’anni Israele raddoppia
La gestione dei rifiuti è l’altro grande argomento che Israele deve affrontare. Lo Stato ebraico detiene la triste posizione di secondo consumatore al mondo di plastica usa e getta. Attualmente, quattro quinti dei rifiuti prodotti nel Paese finiscono in discarica. Il piano votato domenica vorrebbe ridurre la loro produzione del 70 per cento rispetto ai livelli del 2018. Un traguardo che sembra difficile da raggiungere senza incentivi economici. Nel 2022 il governo potrebbe introdurre una legge per tassare del 100 per cento gli articoli in plastica monouso, raddoppiandone il prezzo.