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Gli esuli di Berlino

Laura Silvia Battaglia e Nancy Porsia
21 luglio 2021
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Gli esuli di Berlino
Mohammad Abu Hajar, rapper siriano, con il cane Tenia, a Berlino. (foto di Jacobia Dahm)

Sono siriani, libici, egiziani. Vivono nei quartieri multietnici e multireligiosi della capitale tedesca, ma sono quasi «fantasmi». La loro battaglia, ora che sono distanti dalla patria, continua spesso con le armi della musica e della cultura...


Mohammad Abu Hajar ha cinque anelli, uno per ogni dito della mano, uno per ogni ricordo che è una ferita. Ma i più importanti e quelli per i quali vale spendere una parola per lui che da rapper e attivista politico siriano ne ha usate già tante, sono due e li tiene sugli indici di ogni mano. Uno, a sinistra, ha una pietra rossa carminio, simile a un rubino. «È il regalo di un attivista di Aleppo delle rivoluzioni del 2012. Ci incontrammo in piazza, il suo ricordo non mi ha più lasciato», racconta Mohamed. L’altro, sull’indice di destra, è un calcedonio blu, trasparente, e in controluce la calligrafia araba recita: «La morte è maestra». «È il ricordo di mio zio Jamal, morto tre mesi fa: lui mi ha insegnato tanto nella vita». Il gioiello più prezioso, per Mohammad Abu Hajar, è Tenia, il suo cane, che Mohammad accarezza senza sosta. «L’ho lasciata in Siria anni fa e ci siamo riuniti da qualche mese». Per riuscire ad averla, Mohammad ha organizzato un viaggio dalla Siria alla Germania, passando da Turchia e Russia.

«Le nostre cause continuano ad essere percepite in modo estremamente euro-centrico. E invece dovrebbero essere comprese anche dal nostro punto di vista»

Il primo approdo di Mohammad in Europa è stata Roma, prima di vincere un dottorato in scienze sociali in Germania, dove si è ormai stabilmente insediato. La sua relazione con questo luogo è problematica, controversa. C’è gratitudine ma anche critica nei confronti dell’Europa, la voglia di essere percepito come un soggetto politico attivo e pensante e non come un relitto umano bisognoso solo di assistenza. C’è la stessa tensione politica che Mohammad aveva messo nella denuncia dei crimini del regime siriano: «Dieci anni dopo la rivoluzione bisognerebbe chiedersi che cosa ci facciamo qui e che cosa chiediamo alla popolazione locale tedesca. Le nostre cause continuano ad essere percepite in modo estremamente euro-centrico. E invece dovrebbero essere comprese anche dal nostro punto di vista. I tedeschi devono decolonizzare le loro menti e ascoltarci per davvero». Il rapper siriano e il suo cane oggi passeggiano insieme tra le strade di Neukölln, distretto meridionale di Berlino, la capitale tedesca, ormai noto come la piccola Gaza, ricco di ristoranti palestinesi e bar per fumare il narghilè a tutte le ore.

Il quartiere racconta di esuli in terra straniera alla ricerca di una propria comunità. Qui a Neukölln sono approdati anche i profughi delle rivoluzioni del 2011, partite dalle rivendicazioni di pane e giustizia in Tunisia e sfociate in un cambiamento epocale che ha investito l’intero Nord Africa, il Medio Oriente fino ai Paesi del Golfo. Dopo quelle rivoluzioni, e lì dove sono degenerate in guerre civili (Libia, Siria), per anni decine di migliaia di persone hanno attraversato il mare Egeo e battuto la rotta balcanica puntando verso Berlino. La Germania è sempre apparsa la terra promessa nella terra promessa, il Paese più ricco e più sicuro per i migranti nella «Fortezza Europa». Così, nel 2015 le richieste di asilo presentate in Germania raggiungevano le 442 mila, per poi raddoppiare nel giro di un anno. Al punto che, nonostante la polarizzazione dell’opinione pubblica sulla crisi migratoria, nell’estate del 2015 la cancelliera Angela Merkel dichiarava «noi ce la possiamo fare» e le immagini dei tedeschi con gli striscioni Refugees welcome facevano il giro del mondo. Ma dinanzi ad una Siria in piena guerra civile in cui i gruppi terroristici guadagnavano terreno, in pochi mesi la dottrina Merkel lasciava il passo all’accordo tra Unione Europea e Turchia con cui Bruxelles affidava a Recep Tayyip Erdogan il controllo del suo confine sud-orientale.

A Berlino vivono tanti altri protagonisti delle rivoluzioni arabe: come Mohammad, giovani donne e uomini, proiettati verso le opportunità che offre una terra dalla tradizione pluridecennale di libertà, ma che dentro la metropoli restano fantasmi.

Drif Alhoosh, per gli amici Dado, è un chitarrista libico, membro della comunità di minoranza amazigh (berbera – ndr). Arrivato a Berlino nel 2017, da allora è in attesa di una risposta alla sua richiesta di asilo. In una Libia senza Stato né esercito, dopo le manifestazioni di piazza pacifiche, Dado ha imbracciato le armi a protezione della propria città. «Mi avevano convinto che fosse l’unico modo per conquistare la libertà, ma lì oramai è in corso una guerra senza senso», riflette. Dado nel 2019 ha perso suo fratello minore che con altri uomini armati provava a respingere l’offensiva del generale Khalifa Haftar a Tripoli. Dado guarda oltre quella spirale di sangue in cui spesso vede i suoi amici impigliati. Dado alla vendetta preferisce la vita, la musica e l’amicizia. Un sentimento che lo accomuna a Mohammed Abu Hajar, con cui si è dato appuntamento per una piccola jam session.

«Mai avrei pensato che la mia lotta si sarebbe ridotta a una mera richiesta di asilo qui»

Sul ritmo improvvisato della chitarra elettrica di Dado, Mohammed rappa il loro mantra: «Rifiuta la dignità del nazionalismo se questo significa vivere nella paura». Scampato alla morte prima e alla paura dopo, Mohammed fu arrestato per la prima volta nel 2010, già prima della rivoluzione, con l’accusa di produrre musica sovversiva insieme alla sua band Mazzaj. Dei primi moti rivoluzionari dice: «È stato il momento più felice della mia vita». Ma quando uomini dei servizi segreti lo andarono a cercare, capì che era arrivato il momento di andarsene: «Non potevo finire di nuovo in prigione, perché il mio corpo non si era ancora ripreso dalle torture delle detenzioni precedenti». Pensava fosse questione di un paio di mesi, e invece dal 2011 Mohammed è in Europa. «Mai avrei pensato che la mia lotta si sarebbe ridotta a una mera richiesta di asilo qui», dice l’attivista siriano. La pausa di Mohammed ha il sapore amaro di chi in questa terra non ha trovato il sollievo del rifugio ma la sofferenza dell’esilio. Combattenti per la libertà a casa loro, per molti l’Europa è una sponda da cui portare avanti la propria battaglia. Ogni sabato mattina membri dell’opposizione egiziana in diaspora si incontrano per discutere la controffensiva al movimento anti-rivoluzionario.

«Il termine rifugiato definisce uno status legale, invece i media lo usano come fosse una categoria o stereotipo sociale», dice Muhammad Kashef, avvocato per i diritti umani egiziano, in Germania dal 2017. «Qui quelli di sinistra ci trattano come oggetti esotici, invece per il governo non abbiamo dignità politica» dice. E chiosa: «Io non mi considero un rifugiato ma un esule».

Le hall degli alberghi in giro per Berlino si trasformano in zone franche dove anche pezzi dell’opposizione siriana organizzano conferenze sulle politiche di contrasto al regime di Bashar al-Assad ancora in sella. Yasmine Merei è una di loro.

«Io non ho chiesto l’asilo. Mi rifiuto. Se un domani non riuscirò a rinnovare la residenza, farò le valigie. Perché un rifugio non è sufficiente a restituire dignità a chi ha perduto il senso della propria identità»

Da cinque anni a Berlino, qui la giornalista siriana ha fondato l’associazione Donne per gli spazi pubblici. Prima donna alla guida di un partito di opposizione, il Partito liberale siriano, e fondatrice a Gaziantep del giornale La verità, una rivista sui diritti delle donne, Yasmine potrebbe dare lezione di politica a chi in Europa ne ha perso la passione: «Chi sono? – si chiede –. Sono una femminista, sono un’avvocata dei diritti delle donne alla libertà di movimento e caldeggio la loro espressione politica». Yasmine, costretta a scappare da Homs all’indomani del massacro della piazza dell’Orologio di dieci anni fa, approdata prima in Turchia, poi negli Stati Uniti con una borsa di studio e successivamente a Berlino, non ha parole di clemenza per l’Europa né per la Germania. «Io non ho chiesto l’asilo. Mi rifiuto. Se un domani non riuscirò a rinnovare la residenza, farò le valigie. Perché un rifugio non è sufficiente a restituire dignità a chi ha perduto il senso della propria identità». Yasmine Merei si riferisce al diritto di potere tornare indietro, lei che voleva cambiare la Siria, e anche al diritto di restare in Europa senza per questo dovere necessariamente richiedere l’asilo politico, uno status che implica la perdita della propria nazionalità e il divieto di tornare nel Paese di origine. «Quando ho oltrepassato il check-point di Damasco non ho potuto prendere con me nemmeno le foto dei miei genitori e della mia giovinezza, pena l’essere riconosciuta e il rischio sparire nelle maglie della polizia segreta. Per persone come noi, anche la memoria è un buco nero già depredato», racconta Yasmine, e mentre lo dice il suo viso tondeggiante si fa puntuto: anche la luna è un pianeta che conosce l’orgoglio.

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