Il 28 giugno, durante la riunione romana della coalizione anti Isis, finalmente si è deciso di alzare lo sguardo oltre il Mediterraneo e la Libia per guardare all'Africa. Nella convinzione che lo Stato islamico non è ancora vinto.
Proprio nelle ore in cui, il 28 giugno, Anthony Blinken, segretario di Stato Usa, incontrava a Roma il ministro degli Esteri Di Maio per una riunione ministeriale degli 83 Paesi che fanno parte della coalizione globale anti-Isis, in Medio Oriente succedeva quanto segue: un bombardamento delle forze aeree americane, a cavallo del confine tra Iraq e Siria, contro alcune basi delle milizie sciite filo-iraniane che, pur essendo inserite nei ranghi dell’esercito iracheno, tengono acceso il fuoco del confronto con attentati lungo le strade e raid dei droni esplosivi contro le basi americane; una protesta ufficiale dell’Iraq verso gli Usa, accusati da Baghdad di violare la sovranità nazionale del Paese; promesse di vendetta delle suddette milizie sciite; un incontro tra il presidente Usa, Joe Biden, e quello israeliano Reuven Rivlin, in carica ancora per pochi giorni, avente per tema gli sforzi Usa di recuperare l’accordo del 2015 sul nucleare iraniano e, nello stesso tempo, il desiderio Usa di non compromettere la sicurezza di Israele.
In questo contesto, l’idea di discutere di Isis suona un po’ lunare. Non perché non sia importante farlo. Al contrario: da tempo si osservano i segnali di una ripresa delle formazioni che si richiamano al defunto Stato islamico e di una crescente sfrontatezza delle loro azioni criminose. Per il Medio Oriente ne parlammo proprio qui già nel gennaio scorso. E per quanto riguarda l’Africa subsahariana, basta scorrere le cronache degli ultimi anni.
Il problema non è discutere se l’Isis sia ancora pericoloso, cosa su cui tutti concordano. Ma accordare le parole ai fatti. L’Isis, infatti, non c’entra quasi per nulla con ciò che i Paesi più attivi in Medio Oriente stanno facendo. Non c’entra con Israele, che nei lunghissimi anni della guerra prima irachena e poi siriana non è mai stato attaccato dall’Isis. Non c’entrano gli Usa (quelli di Biden, almeno) che, come si è visto, non colpiscono l’Isis ma piuttosto le milizie fedeli a Teheran, secondo una strategia del bastone e della carota concepita per riportare gli ayatollah al tavolo delle trattative. E con l’Isis nemmeno c’entra l’Iran, che nel recente passato ha combattuto lo Stato islamico e adesso ha ben altri problemi, dall’economia all’esposizione sui fronti siriano e yemenita al rapporto con gli Usa, appunto, senza dimenticare la transizione politica dal presidente riformatore Rouhani al conservatore Ebrahim Raisi (andiamo per le spicce con le nostre categorie) che potrebbe essere meno liscia di quanto sembri.
Ancor più complicato il discorso per quanto riguarda l’Africa, dove l’Isis ha saputo incardinarsi nelle diverse realtà locali sfruttando la debolezza di molti regimi e governi e le occasioni offerte dalla serie infinita di spaccature etniche e tribali. Il ministro Di Maio, che co-presiedeva la riunione insieme con Blinken, ha annunciato la costituzione di un gruppo di lavoro dedicato all’Africa, il che fa capire che siamo ancora lontani dalle azioni concrete. Non si può però vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto. C’è una metà piena. Finalmente si è deciso di alzare lo sguardo oltre il Mediterraneo e la Libia. La fucina dei problemi, non solo quello del terrorismo islamista ma anche quello delle migrazioni e dei morti in mare, è la fascia del Sahel ed è lì che bisogna intervenire. Che sia molto complicato è scontato. Che sia indispensabile, anche.