Anche se quasi assente nei mass media (è stata definita una guerra-ombra), continua a consumarsi nel nord dell’Etiopia una crisi militare con conseguenze tragiche sulla popolazione. Il conflitto nel Tigray, scoppiato nel novembre scorso, non trova soluzione nella quasi indifferenza della comunità internazionale. Si scontrano le forze federali etiopi e il Fronte di liberazione del popolo tigrino, una forza politica e militare che fino a pochi anni era predominante nella politica etiope. A complicare la situazione, sono intervenute anche truppe della Eritrea confinante.
La regione ha solo sette milioni di abitanti (il 6 per cento di tutti gli etiopi), ma è conosciuta da chi visita l’Etiopia perché è la culla dell’identità storica del Paese e per secoli ne è stato il nucleo. Il Tigray (o Tigrè) dal IV secolo è il cuore cristianesimo etiope e custodisce molte ricchezze di questa Chiesa con una storia antichissima. La crisi politica e militare in corso non ha tuttavia una matrice religiosa – non nasce da uno scontro fra cristiani del nord dell’Etiopia e musulmani delle zone centro-orientali. lo scontro è tra Addis Abeba e la leadership tigrina che non ha accettato di perdere influenza negli equilibri complessi dell’Etiopia odierna, in cui gli oromo sono maggioranza. Nel XXI secolo anche musulmani, pentecostali e religioni tradizionali acquistano rilevanza in un Paese che in 50 anni ha quadruplicato i suoi abitanti.
La copertura mediatica delle attività belliche è minima. Internet e collegamenti telefonici sono stati fortemente limitati e i giornalisti stranieri non hanno accesso. Le truppe federali mandate dal primo ministro Abyi Ahmed Ali sono intervenute pesantemente all’inizio di novembre nel capoluogo Macallè, ma è tra le zone montuose che continuano da mesi gli scontri. Qui si nascondono le forze ribelli tigrine decise a resistere. Anche se il governo di Addis Abeba ha dichiarato che a novembre 2020 la situazione era tornata alla normalità con la vittoria delle forze governative, continuano i combattimenti nei villaggi di questa regione, paesaggisticamente tra le più belle dell’Africa, e molte zone restano irraggiungibili per chi vuole portare aiuti.
La popolazione civile che vive di agricoltura e allevamento è la principale vittima della crisi. Il Programma alimentare mondiale ha denunciato che cinque milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari. Mark Lowcock, il responsabile dell’agenzia dell’Onu per gli affari umanitari (Ocha) lo ha dichiarato all’Associated Press il 4 giugno: ci sono notizie di decessi dovuti alla fame. Ritorna l’incubo della tragedia di metà anni Ottanta, la tragica carestia del 1984-85, e questa volta è provocato dalle milizie armate.
Il Tigray è stato storicamente una regione a rischio per la sicurezza alimentare. Anche se negli ultimi trent’anni la situazione era migliorata, saccheggi, spostamenti di popolazioni, interruzione del microcredito e dei sussidi del governo centrale, requisizioni di terre, tutto contribuisce a rendere la fame una realtà concreta per i contadini e piccoli allevatori che sono la maggioranza. Almeno 60mila persone sono fuggite oltre il confine con il Sudan.
Segnali preoccupanti
Tre chiari segnali denunciano la gravità della situazione: uno è venuto da Abune Mathias, che dal 2013 guida di circa 36 milioni di fedeli della Chiesa ortodossa Tawahedo d’Etiopia. È stata la prima volta che il leader cristiano più importante dell’Etiopia ha parlato del conflitto armato. Ha denunciato le violenze commesse e la morte di migliaia di persone. Intervenuto alcuni mesi dallo scoppio della crisi, non ha indicato colpevoli, ma ha scelto di parlare con un duro messaggio in video, registrato in aprile, diffuso solo all’inizio di maggio, secondo quanto riferisce l’agenzia Reuter. Nel discorso del primate della Chiesa ortodossa si fa esplicito riferimento a massacri, ricorso alla fame come strumento di guerra, distruzione di chiese, e si fa uso del termine «genocidio».
Il 28 maggio la Comunità di Sant’Egidio ha annunciato l’arrivo in Italia di 70 etiopi, tra cui 13 minori, che sono atterrati a Fiumicino tramite un corridoio umanitario. Si tratta di persone che da tempo erano riparate in campi per profughi del Tigray e con il conflitto hanno visto peggiorare le loro condizioni. Saranno ospitati in diverse città italiane, da Belluno a Taranto, e accompagnati in un percorso di integrazione.
Il responsabile della Commissione etiope per i diritti umani, Daniel Bekele, che sta cercando di renderla indipendente da ogni influenza politica, anche lavorando a contatto con gli organismi dell’Onu, ha denunciato uccisioni di civili da parte di tutti i gruppi etnici, attirandosi attacchi da ogni fronte. Tra le stragi denunciate, il massacro avvenuto ad Axum alla fine di novembre, presso la chiesa di Nostra Signora di Zion, la più importante della città, dove gli etiopi ritengono sia conservata l’Arca dell’alleanza.
Nel Tigray, oltre a importanti e celebri monumenti come le stele di Axum, ha un enorme patrimonio artistico e culturale fatto di chiese e monasteri diffusi nelle campagne e nelle zone montuose, con pitture, libri manoscritti, tradizioni orali: tutto questo è messo in pericolo. Lo studioso tigrino Mehari Taddele Maru in febbraio ha fatto un appello al governo italiano perché intervenga a difesa del patrimonio artistico della regione. Non è l’unico a lanciare l’allarme: sono stati denunciati danni a chiese ad Adigrat, al celebre monastero di Debre Damo (XIV secolo) e alla moschea di Negash, presso Wukro (VII secolo), tra le più antiche dell’Africa. (f.p.)