Lo scorso primo marzo la Corte Suprema israeliana si è pronunciata per un ampliamento del concetto di identità ebraica. In base alla sentenza, ora le persone che si convertono al giudaismo in Israele attraverso i movimenti del giudaismo riformato e conservative (o masorti) sono considerate ebree anche dallo Stato. È una piccola rivoluzione per il giudaismo israeliano, fino ad oggi sotto il controllo di un Gran rabbinato rigido difensore dell’ortodossia religiosa.
Le correnti riformata e masorti, nate nel XIX secolo in Germania, danno un’interpretazione molto meno rigida della legge ebraica rispetto a quella ortodossa e mettono in discussione alcuni precetti del Talmud. Mentre sono maggioritarie negli Stati Uniti, dove vive quasi la metà della comunità ebraica mondiale, rappresentano solo il 4 per cento della popolazione israeliana.
Non è tanto la rilevanza numerica di queste componenti, quanto il significato simbolico della decisione che consente di misurare l’entità di un simile terremoto. «La Corte israeliana, consentendo ad autorità religiose non ortodosse di conferire lo status di “ebrei” all’interno dello Stato ebraico, infligge un duro colpo al monopolio degli ultraortodossi», osserva il quotidiano digitale The Times of Israel.
Definire l’ebraicità
Sono le stesse fondamenta dello Stato di Israele, le questioni irrisolte del sionismo e le linee di frattura tra il Paese e la diaspora ad essere interessate da questa decisione. Lo testimoniano le reazioni dei due Rabbini capo, che si sono affrettati a fustigare il tribunale israeliano. «Ciò che i movimenti liberali chiamano “conversione” non è altro che una falsificazione del giudaismo», afferma il rabbino capo sefardita Yitzhak Yosef. Dal canto suo il rabbino capo ashkenazita, David Lau, osserva che i convertiti “liberali” «non sono ebrei», prima di aggiungere: «In che modo lo Stato di Israele resterà uno Stato ebraico, se qualunque non ebreo può acquisire la cittadinanza?».
La delicata questione era sul tappeto da almeno 15 anni, con governi e legislatori riluttanti a prendere una decisione. «Era ormai chiaro che non c’era alcuna possibilità di giungere a un compromesso e che nessuna legge in materia era alle viste – ha detto il presidente della Corte Esther Hayut in una conferenza stampa –. Pertanto, non avevamo altra scelta che prendere una decisione».
Se la Corte Suprema ha atteso tanto a lungo le decisioni della Knesset, è perché lo Stato di Israele, dalla sua fondazione, 73 anni fa, non è mai riuscito a definire l’ebraicità. David Ben-Gurion, il suo fondatore, ci ha provato, chiedendo a circa 50 rabbini di riflettere sulla domanda «Chi è un ebreo?». Risposta degli studiosi: non è necessario porre la domanda poiché la religione dice che il figlio di una madre ebrea è un ebreo. Questo è ciò che in definitiva prevede la Legge del Ritorno (adottata nel 1950, e successivamente emendata, la norma riconosce agli ebrei in diaspora il diritto a stabilirsi in Israele ricevendo automaticamente la cittadinanza dello Stato – ndr).
La questione della definizione del concetto di ebreo, a fronte delle conseguenze giuridiche che ne derivano in Israele, ha dato vita ad uno dei più accesi e prolungati dibattiti in seno alla società israeliana.
Con l’approssimarsi delle elezioni parlamentari del 23 marzo, i partiti ultraortodossi, alleati di Benjamin Netanyahu, hanno già avvertito che entreranno solo in un governo che si impegni a vanificare la sentenza del primo marzo. Il partito Likud lo ha promesso, ma il premier, finora, è rimasto in silenzio.