Tra tutti i negozi di abbigliamento femminile di Gerusalemme Est, non sapremmo dire quale ci stupisce di più. Quello che espone in vetrina lunghi e ampi abiti pieni di paillettes luccicanti? O forse quello che propone hijab (veli) su manichini taglia bambino? O ancora, quello che mette insieme pantaloni aderenti e canottiere all’occidentale con giacche larghe sformate, più «pudiche»? Nel quartiere arabo della città santa i codici di abbigliamento femminili sorprendono, suscitando domande in noi profani. La stragrande maggioranza delle donne che vi abitano, palestinesi e di religione islamica, seguono le regole di pudore e modestia prescritte dal Corano. La celebre sura An-Nûr (la luce) recita infatti: «E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri […]» (Sura XXIV,31). L’islam chiede così alle musulmane di nascondere il corpo dal mento fino ai piedi, lasciando scoperti il volto e le mani.
Per Amine, che dirige un negozio in Salah-ad-Din Street, è tutta una questione di misura. «Qui la maggior parte delle donne sceglie di portare d’estate un abaya (il tipico indumento lungo di molte donne musulmane – ndr), con un semplice velo sulla testa; in inverno, aggiungono una lunga giacca.
L’importante è che i nostri vestiti non siano né trasparenti né vistosi, per non suscitare sguardi estranei.
Ma nulla vieta di cambiare colori, materiali, stili, e di essere eleganti!». La sua boutique, a pochi passi dall’Institut Français, espone decine di abiti multicolori e finemente ricamati a punto croce.
Tra le stoffe, molto nero e molto rosso, due tonalità tradizionali in Palestina che Amine tiene a mettere in risalto.
La giovane donna è nata e cresciuta nel quartiere. In fatto di moda, due fenomeni hanno attirato la sua attenzione negli ultimi anni. «È chiaro che le donne di Gerusalemme sono più velate di prima. Ci sono delle foto di mia madre e di mia nonna negli anni Settanta con le maniche corte, gonne sopra il ginocchio e un semplice scialletto sui capelli… ed erano ben musulmane! Dall’altro lato, oggi molte ragazze vestono all’occidentale, con pantaloni aderenti e top corti, ma portano comunque l’hijab… Che senso ha per loro? Se non vogliono seguire le regole di modestia dettate dell’islam, tanto vale che si tolgano l’hijab, e che se lo rimettano quando si saranno sposate», esclama un po’ divertita, un po’ esasperata.
Che siano giovani, sposate o single, le donne di Gerusalemme sembrano essere sempre più influenzate dal fenomeno mondiale della «moda modesta». Sorto negli Stati Uniti e poi diffusosi in Paesi a maggioranza islamica come l’Indonesia, ha conosciuto un nuovo slancio a partire dal 2011 per iniziativa di un gruppo di blogger che cercavano di contrastare lo stereotipo delle donne musulmane presentate come oppresse a causa del loro modo di vestire.
Rivisitando le regole di modestia nell’abbigliamento, queste giovani musulmane cercano di mostrare come uno stile «pudico» non per forza sia sgradevole o monotono. La «moda modesta» da allora si è sviluppata in modo alquanto spettacolare, raggiungendo moltissime musulmane ai quattro angoli del pianeta.
Ciò che è accaduto anche per le donne palestinesi, che a ogni stagione fanno propria la moda del momento. Forse vi sarà capitato di incrociarne qualcuna, con un paio di scarpe alla moda nuove fiammanti che spuntano sotto il lungo abaya scuro.
(traduzione di Roberto Orlandi)
Eco di Terrasanta 2/2021
La prova come occasione
Tutta la Sacra Scrittura è popolata di uomini e donne che hanno dovuto affrontare crisi e superare prove e, attraverso di esse, hanno portato avanti la storia della salvezza. Ma, come con Abramo, perché Dio mette alla prova?