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Palestina, il circo come palestra di vita

Giulia Ceccutti
5 febbraio 2021
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Cresce e si misura con le sfide poste dalla pandemia la Scuola di circo palestinese, attiva ormai da oltre un decennio. Il racconto del direttore Mohamad Rabah e di una giovane allieva, Rewa Boshe.


«Frequento i corsi della Scuola di circo da sei anni. La trovo un’esperienza incredibile. Per me è come una famiglia. Mi piace tutto: i giochi che facciamo, gli spettacoli, il fatto di stare insieme e di conoscere nuovi amici». È entusiasta Rewa Boshe, quattordici anni e un ottimo inglese, al telefono da Ramallah.

Ogni domenica pomeriggio fa pratica nel circo della sua città. La lezione dura due ore, e per lei volano. Ha iniziato con la ginnastica, racconta. «Poi ho deciso di provare, per circa tre anni, un’altra specialità, l’aerial silk (in italiano tessuti aerei, una disciplina circense in cui l’acrobata, usando una lunga striscia di tessuto leggermente elastico fissato a un gancio, si esibisce in sorprendenti figure sospese – ndr), mentre ora sto utilizzando principalmente il cerchio. Mi piace mettermi alla prova con attrezzi nuovi, non ho paura di misurarmi con una tecnica che non conosco».

Rewa è una dei 250 bambini e ragazzi che, ogni anno, frequentano i corsi della Scuola di circo palestinese, la prima esperienza del genere fondata, nel 2007, nei Territori palestinesi. Oggi è una realtà riconosciuta e strutturata, che dà lavoro a tredici persone e si divide tra un vasto programma educativo e un vivace settore artistico, come ci spiega – al telefono da Birzeit, dove si trova la sede – Mohamad Rabah, direttore da luglio 2018.

Col circo protagonisti di cambiamento

«Ci basiamo sul concetto di “circo sociale”», premette Rabah. «Cerchiamo cioè di usare il circo come uno strumento di cambiamento sociale. In quest’ottica, lavoriamo con bambini, donne, giovani con disabilità, comunità svantaggiate, come quelle dei campi profughi». Di qui la scelta di essere presenti in città e quartieri particolarmente difficili: Jenin, Ramallah e il campo profughi di Tulkarem, il quartiere di Silwan a Gerusalemme (sede di tensioni a causa dell’occupazione e di demolizioni di case).

Riguardo a Gerusalemme, Mohamad precisa: «Dato che non abbiamo il permesso di recarci in quella città, da quattro anni formiamo dei maestri che possano insegnare lì, ai 30 bambini iscritti».

In ogni città la scuola collabora inoltre con associazioni e partner locali.

Un modo per raccontarsi

L’idea di fondo, ancora secondo Mohamad, è lavorare sul potenziale positivo e creativo dei più piccoli (ma non solo), coinvolgerli per farli diventare «attori sempre più consapevoli e in grado di affrontare le sfide in modo costruttivo».

Attori aperti al mondo. Tre anni fa, ad esempio, insieme a una quindicina di compagni di corso, Rewa è volata in Germania per prendere parte a uno spettacolo dal titolo Crossing the borders («Andando oltre i confini»). «Attraverso acrobazie, numeri e giochi – dice – raccontavamo la nostra storia, come viviamo qui in Palestina sotto occupazione. È stata un’esperienza indimenticabile, anche per gli amici e le persone incontrate».

In Rete e dal vivo

Tra le novità più rilevanti degli ultimi anni la presenza in Rete, con la messa a punto di una serie di video sulla pagina YouTube e la pubblicazione di un manuale – per ora solo in arabo – scaricabile. Quest’ultimo è una guida dettagliata, destinata a formatori all’inizio e addetti ai lavori, che raccoglie un ventaglio di metodi di formazione delle tecniche circensi.

Imprescindibili, secondo Mohamad, i vantaggi offerti dagli strumenti online, ma altrettanto indispensabile l’esperienza di persona: «Essere ben visibili e connessi con il mondo fuori dalla Palestina è importante e ci obbliga a migliorare, ma nulla può sostituire, soprattutto per i bambini, il vissuto di persona. Imparare a “leggere” il linguaggio del corpo, il proprio e quello dei compagni, toccare e sentire, sono aspetti insostituibili».

Le sfide poste dal Covid-19

È d’obbligo chiedere in quale misura la Scuola sia stata toccata dalla pandemia da Covid-19. Mohamad esce con una mezza risata, mentre ricorda: «Proprio a marzo scorso stavamo mettendo a punto il piano delle attività per i prossimi quattro anni. È quindi facilmente immaginabile che cosa abbia rappresentato il lockdown e l’interruzione di tutto. Fino alla fine di maggio non abbiamo potuto tornare nei nostri uffici». E aggiunge: «È stato il periodo più difficile perché il più incerto, anche dal punto di vista della sostenibilità economica: per il 20 per cento la scuola si regge infatti sulle attività che organizza. Spettacoli, eventi, tour e festival per noi rappresentano anche una fonte di entrata».

Da giugno scorso la ripresa di parte dei corsi, con i campus estivi e il programma di formazione per i docenti. «Abbiamo sfruttato questo tempo per produrre nuovi spettacoli e far maturare altre proposte», conclude. «A suo modo, posso dire che è stato anche utile».

Le maggiori fonti di finanziamento della scuola sono costituite da governi e fondazioni (attualmente perlopiù tedesche, francesi, svedesi), tra cui la svizzera Drosos Foundation, attiva in diversi Paesi del Medio Oriente e Nord Africa.

Va precisato poi che, per i ragazzi, la quota d’iscrizione per un anno di corso ammonta a 700 shekel (177 euro), ma solo il 40 per cento paga questa somma per intero: il restante 60 per cento ha una borsa di studio.

Molto più di una tenda

Circa i progetti e sogni per il futuro, Mohamad non ha dubbi: «Il nostro sogno? Costruire un circo in ogni città e villaggio della Palestina. Per diffondere sempre più i valori e le idee in cui crediamo. Un circo non è solo una tenda, una mera costruzione. È un luogo simbolico, rimanda a molte cose: penso in particolare all’identità del rifugiato, così viva e sentita per noi palestinesi».

 

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