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Gli ebrei italiani in Israele, componente vitale

Giulia Ceccutti
26 novembre 2020
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Gli ebrei italiani in Israele, componente vitale
Il tricolore italiano proiettato sulle mura di Gerusalemme vecchia nel marzo 2020 per esprimere solidarietà al Paese colpito dal coronavirus. (foto Yonatan Sindel/Flash90)

Si sentono al 100 per cento israeliani e in ugual misura italiani. Geograficamente si concentrano soprattutto a Tel Aviv, poi a Gerusalemme e nelle altre città. Le varie ondate del movimento migratorio ebraico dall'Italia.


«Sono nato a Tripoli, in Libia, nel 1962. Con la mia famiglia ci siamo rifugiati in Italia nel 1967, quando scoppiò la Guerra dei sei giorni. L’Italia mi ha adottato e io mi sento visceralmente italiano. In Italia mi sono laureato, ho svolto il servizio militare. Poi a un certo punto mi sono detto che era arrivato il momento di tirare fuori dal cassetto un sogno. Mi sono chiesto: “Ma qual è casa mia?”. Così mi sono trasferito in Israele. Sono italiano al 100 per cento, ma sono anche israeliano».

Si definisce così, a metà della nostra telefonata, Raphael Barki, presidente del Comitato italiani all’estero (Com.It.Es) di Tel Aviv, spiegando che la ragione della sua scelta – che definisce «ideologica» – è comune a moltissimi ebrei italiani che hanno deciso di andare a vivere in Israele. E aggiunge: «Qui nessuno per strada ti apostrofa “sporco ebreo” o cose del genere. Gli ebrei in Israele si sentono a casa».

Qualche cifra

Secondo il Rapporto Italiani nel Mondo 2020  della Fondazione Migrantes, Israele è tra le prime 25 destinazioni.

Gli ebrei italiani che vivono qui rappresentano la quota maggioritaria dei circa 20 mila connazionali oggi residenti nel Paese. Gli altri sono perlopiù religiosi e membri della Chiesa, persone che lavorano per organizzazioni non governative, studenti, ricercatori, docenti e persone giunte per seguire i propri affetti.

Il numero di 20 mila è composto dalla somma dei dati forniti dall’ambasciata Italiana a Tel Aviv e dal consolato italiano a Gerusalemme (che svolge anche le funzioni di rappresentanza diplomatica presso l’Autorità Nazionale Palestinese – ndr). La suddivisione del dato è già, di per sé, interessante.

All’ambasciata risultano 16.720 cittadini Aire (iscritti cioè all’Anagrafe italiani residenti all’estero), circa il 43 per cento dei quali vive in un’ampia area che circonda Tel Aviv e si estende da Rehovot fino a Natanya. Le altre zone di maggiore concentrazione della comunità italiana sono Haifa, Beer Sheva, Ashdod e Ashkelon. Seguono Eilat e Nazaret. Non sono attualmente disponibili ulteriori dati ufficiali che comprendano i non iscritti Aire.

Il dato dei cittadini Aire fornito dal consolato generale a Gerusalemme – considerata dall’Italia circoscrizione autonoma – ha recentemente superato i 3.000 individui. Va precisato che in questi 3.000 sono inclusi tutti coloro che dimorano nei Territori palestinesi (Cisgiordania e Gaza), ma la componente dominante resta quella degli italiani nella parte ebraica di Gerusalemme. Diversi altri connazionali operano temporaneamente nei Territori palestinesi, ma non sono iscritti all’Aire.

Bisogna aggiungere che la popolazione italiana dell’area di Tel Aviv si caratterizza per un’età media decisamente più bassa rispetto a quella di Gerusalemme. Tanti sono infatti i giovani attratti dal mercato del lavoro più dinamico – e dominato dalle nuove tecnologie – tipico di Tel Aviv.

Il passato illumina il presente

Impossibile parlare dell’oggi senza volgere prima lo sguardo alla storia. È la premessa necessaria secondo Sergio Della Pergola, raggiunto telefonicamente a Gerusalemme. Professore emerito di demografia all’Università ebraica di Gerusalemme, considerato il massimo esperto di demografia dell’ebraismo, è nato a Trieste e si è trasferito in Israele nel 1966, subito dopo la laurea in Scienze politiche all’Università di Pavia.

«Qui la comunità italiana si è costruita in varie fasi», spiega. Il nucleo portante è rappresentato dagli ebrei giunti dall’Italia negli anni drammatici tra il 1938 e il 1941: circa un migliaio di persone. La maggioranza di costoro apparteneva a un’élite – professori, giudici, avvocati, impiegati pubblici di alto livello – che andò a costituire la base della presenza italiana in Israele. «Pochi singoli erano ovviamente arrivati già prima del 1938, ma si tratta di numeri decisamente esigui», puntualizza. E continua: «Questi italiani in parte ripresero lo stesso lavoro che svolgevano nelle città d’origine: molti professori, ad esempio, continuarono a insegnare, contribuendo a fondare e dare grande impulso alle università».

L’ondata successiva si colloca dopo la seconda guerra mondiale e segna l’arrivo di numerosi giovani sopravvissuti allo sterminio. Contribuirono a far crescere i kibbutz in tutto il Paese.

In seguito, si ebbero altre piccole ondate migratorie che, come chiarisce Della Pergola, «riflettono la situazione politica italiana e l’atteggiamento verso gli ebrei».

Dagli anni Settanta ad oggi

Gli arrivi più consistenti si ebbero dopo la guerra dei Sei giorni, all’inizio degli anni Settanta, e nei primi anni Ottanta (in concomitanza con gli «anni di piombo» e l’attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982). Continuarono poi lungo gli anni Novanta, fino a un forte risveglio nel 2014-2015, anni caratterizzati dalla recessione e quindi dallo spostamento di persone di estrazione sociale diversa rispetto al passato: addetti al piccolo commercio e famiglie disagiate.

«Siamo così di fronte», conclude Della Pergola, «a una comunità piuttosto complessa nella sua composizione, per la presenza di strati sociali, città e luoghi di origine differenti». Lo scarto più evidente è quello che vede gli arrivi degli ultimi anni principalmente da Roma, mentre in passato le zone di provenienza erano centro e nord Italia.

Una componente ben integrata

Chiediamo a Raphael Barki in quali settori lavorativi si ritrova principalmente la presenza italiana. Cita innanzitutto quello tecnologico (informatica, dispositivi medici, ecc.), con alcune punte di eccellenza nell’agrotecnica. Molto apprezzata è inoltre la cucina: diversi connazionali lavorano, a vari livelli, per ristoranti e pasticcerie. Gli altri due grandi incubatori sono il turismo e la cultura. Massiccia è la presenza di italiani nel campo dell’arte (è italiana, per citare solo un esempio di rilievo, la direttrice del Museo d’arte di Tel Aviv, Tania Coen-Uzzielli), dell’estetica, del design e della moda.

«La cultura italiana è molto apprezzata qui in Israele», conferma Della Pergola. «Non manca una certa affinità: sia gli italiani sia gli israeliani sono creativi, non molto disciplinati… Rientriamo in alcuni stereotipi che ci accomunano», commenta ridendo.

«La comunità italiana in Israele, profondamente orgogliosa di avere origine da una delle più antiche realtà dell’ebraismo della Diaspora», osserva l’ambasciatore Gianluigi Benedetti, cui abbiamo chiesto un breve intervento sul tema, «ha saputo offrire negli anni un contributo prezioso alla fondazione e allo sviluppo economico, politico sociale e culturale dello Stato di Israele. Oggi conserva un legame fortissimo con l’Italia, è perfettamente integrata nella realtà locale e vanta rappresentati illustri in diversi settori: dalla cultura, all’università, all’industria, al settore dell’innovazione e della ricerca scientifica. Essa esprime dunque un punto di forza delle relazioni tra i nostri Paesi di cui contribuisce ad alimentare l’amicizia e il dialogo».

Con un’identità nitida

È quasi scontato domandarsi se questa comunità sia coesa o meno, e quale sia il rapporto con le origini. «Gli italiani sono molto legati alle loro radici», risponde Barki. «Hanno inoltre affinità ben riconoscibili nello stile, nel modo di vestirsi, nella stessa passione per la cultura e l’arte… Vi sono infine, non solo a Gerusalemme e Tel Aviv, diverse associazioni culturali e ricreative nelle quali si ritrovano per momenti comuni».

Nicolò Gugliuzza – autore nel 2019 di una tesi di laurea magistrale in antropologia presso l’Università di Bologna dedicata agli ebrei italiani in Israele, frutto di un mese di ricerca etnografica sul campo – conferma di aver verificato che anche i più giovani avvertono con forza i legami con le proprie radici.

«Consapevolezza – scrive Gugliuzza – che nella più parte dei casi, a mio giudizio, resta il primo movente all’origine della nuova alyah 2.0 (letteralmente «salita», sottinteso «verso l’altura di Gerusalemme», termine che indica l’immigrazione ebraica prima in Palestina e ora nello Stato di Israele – ndr). Sebbene una maggioranza degli olim (gli ebrei che hanno compiuto l’alyah – ndr) di recente migrazione che ho incontrato sia giunta a Tel Aviv animata dalla ricerca di un futuro professionale in un contesto vitale ed energico come quello israeliano, ho constatato che in quasi tutti permane una forte componente identitaria; la consapevolezza di appartenere a un popolo e a una storia».

 

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