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Il coronavirus a Gaza tra rassegnazione e fame

Terrasanta.net
20 novembre 2020
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Il coronavirus a Gaza tra rassegnazione e fame
Tutti con la mascherina nella bottega di un barbiere di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, il 18 novembre 2020. (foto Abed Rahim Khatib/Flash90)

(g.s.) – I dati ufficiali diffusi dalla ministra della Salute palestinese Mai Alkaila il 19 novembre dicono che nelle 24 ore precedenti si sono registrate 1.251 nuove persone infette dal coronavirus che causa il Covid-19. Tra costoro 742 abitano in Cisgiordania, dove il focolaio più allarmante è attualmente nel distretto di Nablus (238 casi), 141 in Gerusalemme Est e 368 nella Striscia di Gaza. Il conteggio giornaliero nella settimana precedente oscillava tra i 500 e i 730 nuovi infetti, fa notare Hamira Hass dalle pagine del quotidiano Haaretz e quindi l’impennata degli ultimi giorni è molto preoccupante.

Secondo l’agenzia ufficiale Wafa i casi complessivamente censiti dall’inizio della pandemia nei Territori palestinesi sono 79.822, 69.398 i guariti, 676 i morti. Fin qui sono stati effettuati oltre 603mila tamponi.

Benché allarmate, le autorità sanitarie palestinesi non hanno ancora indetto un altro lockdown totale (d’altronde non agevole da far rispettare), né in Cisgiordania né nella Striscia di Gaza. Si limitano a coprifuoco notturni nelle aree più esposte e ad altri interventi mirati e sanzionatori.

Nella Striscia 44 negozi hanno dovuto chiudere per non aver rispettato le misure decise dalla autorità sanitarie. La polizia ha elevato multe a motociclisti che circolavano senza indossare la mascherina o ad ambulanti che occupavano il suolo pubblico senza autorizzazione. Sono anche stati dispersi assembramenti creatisi per funerali e nozze. Il portavoce del locale ministero della Salute, dice la Hass, si rammarica del fatto che molti cittadini si mostrino apatici o poco collaborativi, forse perché sottovalutano i rischi del contagio, benché nelle terapie intensive siano stati ricoverati anche dei giovani (erano in cinque a metà novembre). Amira Hass segnala un elemento che potrebbe parzialmente spiegare quella che sembra apatia: con la pandemia in corso molte persone hanno visto precipitare le entrate nel bilancio familiare. Prive di sussidi pubblici, lottano per procurarsi il cibo e i beni necessari per vivere. Le cure e i farmaci non sono in cima alle priorità. Contagiarsi, in queste condizioni, è considerato un rischio secondario.

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