Il nuovo presidente Usa riuscirà a riannodare i fili del dialogo prima che i fondamentalisti anti-occidentali in Iran prendano il sopravvento, come potrebbe avvenire alle elezioni del giugno 2021?
La vittoria del candidato democratico Joe Biden nelle elezioni presidenziali statunitensi può apparire una buona notizia per l’Iran, bersaglio privilegiato della politica filo-saudita e filo-israeliana dell’uscente Donald Trump. Biden ha detto chiaramente che avrebbe riportato gli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare del 2015, da cui Trump è uscito unilateralmente nel 2018. Ha posto però «determinate condizioni», tra cui quella di ampliare il perimetro dell’intesa alle altre questioni che riguardano il ruolo dell’Iran nella regione.
C’è da chiedersi se Washington e Teheran riusciranno effettivamente a riannodare i fili del dialogo, prima che i fondamentalisti anti-occidentali della Repubblica islamica prendano il sopravvento, come potrebbe avvenire nel voto del giugno 2021 per eleggere il successore del presidente riformista-moderato Hassan Rouhani, arrivato a scadenza del mandato. I tempi sono stretti. Il 2020 non è il 2015 e sarebbe illusorio immaginare un «ritorno al passato». Entrambe le parti non possono semplicemente risuscitare il vecchio accordo, se non in un contesto di intese e garanzie più ampie (e più lunghe e difficili da concordare).
Molti sono gli elementi che si frappongono a un successo della ripresa del dialogo. La prima difficoltà riguarda l’atteggiamento dell’Arabia Saudita e di Israele di fronte alla possibilità di una nuova legittimazione politica dell’Iran, che potrebbe rafforzare ulteriormente il ruolo di Teheran in Siria, Libano e Yemen. Israeliani e sauditi sanno come condizionare la politica statunitense: dispongono di molti strumenti per ostacolare o addirittura bloccare il processo decisionale a Washington. La seconda difficoltà è che Biden potrebbe non avere il controllo del Senato, fondamentale per la politica estera, se a gennaio i due seggi in ballottaggio in Georgia dovessero restare in mano repubblicana. E anche nel caso di una maggioranza democratica in entrambe le Camere, l’influenza saudita e israeliana nel partito democratico non è certo irrilevante. Né si può escludere, nell’attuale confuso contesto politico-istituzionale a Washington, pressioni perché l’amministrazione uscente di Trump avveleni ulteriormente i pozzi nel delicato periodo di transizione di qui al 20 gennaio, gettando il Medio Oriente in un caos ancora maggiore di quello in cui già si trova.
Altre difficoltà riguardano gli accordi sul nucleare in quanto tali. Nel 2015, la loro firma suscitò grandi aspettative in Iran, tra i gruppi dirigenti, soprattutto economici, e tra la gente. Ma subito all’euforia è subentrata la delusione, perché alla fine, già prima di Trump, si era capito che, nonostante l’impegno iraniano a ridimensionare il proprio programma atomico, gli investimenti non sarebbero arrivati, che il sistema delle sanzioni non si esauriva con il tema del nucleare, che l’inserimento dell’economia iraniana nei circuiti finanziari e commerciali internazionali non era scontato. Potrà l’Iran non chiedere garanzie più solide, dopo che le vicende dell’accordo hanno delegittimato Rouhani e l’ala riformista, accusati e derisi in patria per essersi fatti imbrogliare dagli Stati Uniti e abbandonare dall’Europa e dalle Nazioni Unite? Per i negoziatori della Repubblica islamica sarebbe difficile, se non impossibile, accettare, quale condizione per il rilancio dell’accordo, una discussione sul programma missilistico o sul ruolo dell’Iran nei Paesi limitrofi, senza un totale e immediato abbandono di tutte le sanzioni statunitensi contro Teheran e garanzie politiche blindate contro le mire saudite e israeliane sul futuro assetto della regione.
La sconfitta alle elezioni parlamentari dello scorso anno in Iran, dove hanno vinto gli ultraconservatori anti-occidentali, e soprattutto si è registrato un astensionismo di oltre il 60 per cento, mai visto nella Repubblica islamica, pesa come un macigno sui margini di manovra di Rouhani e del governo in carica. Sadegh Zibakalam, uno dei più apprezzati analisti iraniani, ritiene che ormai i riformisti abbiano perso la loro base elettorale e prevede che alle prossime elezioni presidenziali si presenterà solo un 30 per cento di votanti. Il Paese è stremato e disilluso. Anche per questo, il governo riformista iraniano avrebbe un bisogno disperato di incassare, e subito, qualcosa di consistente da parte statunitense, almeno dal punto di vista mediatico, per recuperare credibilità prima del delicato passaggio elettorale di giugno, destinato a condizionare il posizionamento del paese nei prossimi anni.
Perché Persepolis?
La città di Persepolis era il centro del mondo prima di Alessandro Magno e di Roma. Era simbolo di una stagione di convivenza e integrazione culturale per quell’immensa regione che chiamiamo Medio Oriente. Oggi le rovine della capitale politica dell’antico Impero Persiano si trovano nel cuore geografico di un’area che in pochi decenni ha visto e vede guerre disastrose, invasioni di superpotenze esterne, terrorismo, conflitti latenti e lacerazioni interne all’islam: eventi che sfuggono alle semplificazioni con cui spesso in Occidente si leggono le vicende di quel quadrante geografico e che richiedono pazienza nel ricercare i fatti e apertura nel valutarne le interpretazioni. È ciò che si sforzerà di fare questo blog, proponendo uno sguardo ravvicinato sulla cultura, la società, l’economia, la religione, le radici identitarie dell’Iran e dei territori a forte componente sciita, compresi tra il Mediterraneo e Hormuz, tra lo Yemen e l’Asia Centrale.
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Elisa Pinna, giornalista e scrittrice, è stata vaticanista, inviata per il Medio Oriente e corrispondente da Teheran per l’agenzia Ansa, oltre che collaboratrice di diverse testate italiane. Ha scritto libri sul pontificato di papa Benedetto XVI, sulle minoranze cristiane in Medio Oriente, sull’eredità dell’apostolo san Paolo. Con le Edizioni Terra Santa ha pubblicato Latte, miele e falafel: un viaggio tra le tribù di Israele e contribuito a Iran, guida storica–archeologica.