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Palestina senza pellegrini, una catastrofe economica

Kassam Maadi
19 ottobre 2020
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Palestina senza pellegrini, una catastrofe economica
Betlemme. Obbligo di mascherina dentro la basilica della Natività, ammonisce il cartello sul sagrato deserto. (foto Andrea Krogmann)

L’industria del turismo e dei pellegrinaggi è uno dei pilastri dell’economia palestinese. Tony Khashram, presidente di un’associazione di operatori turistici in Palestina, spiega le conseguenze del blocco imposto da marzo per la chiusura delle frontiere a causa della pandemia da Covid-19. La comunità cristiana è particolarmente colpita.


Tony Khashram è fondatore e direttore generale di Aeolus Tours, un’agenzia di viaggi per il turismo da e verso i Territori palestinesi. L’imprenditore è anche presidente della Holy Land Incoming Tour Operators Association (Hlitoa), un’associazione del settore privato che rappresenta 50 tour operator palestinesi e contribuisce alla crescita dell’economia e del prodotto interno lordo palestinesi rafforzando il comparto turistico.

Cristiano praticante, Khashram è anche vice-presidente della Conferenza di San Vincenzo de Paoli e presidente del Coordinamento delle organizzazioni umanitarie cattoliche (Ccao) di Israele e Palestina che riunisce quindici grandi organismi. Lo abbiamo intervistato.

In Terra Santa il turismo e i pellegrinaggi sono fermi al palo ormai dallo scorso mese di marzo. Quali sono le ricadute finanziarie che si riscontrano in Palestina?
Alla fine di agosto le perdite del comparto turistico in Palestina hanno superato i 320 milioni di dollari. Una somma che rappresenta il salario di tutti gli attori del settore. Nella nostra rete, che è il più grande raggruppamento di imprese private nel turismo, tutte le prenotazioni sono state annullate. Ciò implica che tutti i fornitori di servizi, gli alberghi, i trasporti, gli esercizi commerciali, i ristoranti e le guide non abbiano più alcuna entrata da fine febbraio.
Sono cifre che riguardano la Palestina, un Paese di sei milioni di abitanti, per il quale il turismo è uno dei pilastri portanti dell’economia. La crisi che attraversiamo è catastrofica, la peggiore che il turismo palestinese abbia mai conosciuto.

Durante le due intifada (le rivolte palestinesi degli anni Ottanta e dei primi anni del Duemila – ndr) il turismo e i pellegrinaggi avevano già subito pesanti contraccolpi. Perché considera quella attuale come la peggiore crisi della vostra storia?
Perché negli anni dell’intifada il turismo e i pellegrinaggi non si sono mai arrestati del tutto. Nel 2000, ad esempio, con lo scoppio dell’intifada (a settembre – ndr) ci fu un crollo del 90 per cento. Ma nei mesi successivi i gruppi ripresero a tornare anche se in piccoli numeri. Gli operatori del settore riuscirono a tirare avanti. L’aeroporto (di Tel Aviv) era rimasto aperto e c’era sempre un traffico aereo di viaggiatori. Con la crisi presente, invece, si è assistito a un crollo totale da un giorno all’altro e ad oggi non si vede all’orizzonte alcuna ripresa. È come se un bel giorno dicessero a tutti gli avvocati di smettere di lavorare, o ai panettieri di non infornare più il pane.
Un altro elemento inedito: l’intifada riguardava solo la Terra Santa, ma nel resto del mondo il turismo continuava e non serviva altro che riagganciarsi ad esso. Stavolta è il mondo intero ad essersi fermato e ci vorrà molto più tempo a riprendere il ritmo, l’abitudine stessa di viaggiare.

Nel giugno scorso, parlando al giornale Al-Hayat lei diceva che la crisi colpisce il turismo in Palestina mentre attraversava un periodo di crescita. Quali saranno le ricadute?
Il turismo in Palestina ha conosciuto una crescita importante a partire dal 2017. Nel 2019 siamo giunti all’apice. Il settore beneficiava di importanti investimenti. Nuovi alberghi e case di ospitalità sono stati aperti in tutta la regione, per un totale di decine di migliaia di nuove camere. Molte persone hanno chiesto prestiti a lungo termine per investire e le banche non hanno lesinato.
Il sopraggiungere della crisi in questa fase è un colpo molto duro per gli investitori, soprattutto per coloro che hanno messo denaro in attività medio-piccole, come le case di ospitalità o i negozietti di souvenir per pellegrini, di produzione locale o importati. Alcuni hanno acquistato questa merce a credito. Molte famiglie hanno adibito una parte della loro casa a camere per ospiti, indebitandosi per la ristrutturazione. I pellegrinaggi sono essenziali per sostenere la presenza cristiana in Palestina e bisogna far in modo che riprendano non appena possibile.

Lei ha menzionato Betlemme. La comunità cristiana di lì ha risentito della crisi in modo particolarmente acuto?
Il 70 per cento circa dei cristiani in Palestina lavora nel comparto turistico, più o meno a tempo pieno. La maggior parte delle agenzie turistiche sono imprese familiari, così come gli esercizi commerciali legati ai pellegrinaggi. I miei due figli, per esempio, sono ormai adulti e lavorano con me nella nostra agenzia. Se i flussi turistici non riprendono rapidamente, se ne andranno all’estero alla ricerca di nuove opportunità. È quello che accadrà in molte altre famiglie.
Ma quel che è ancora più importante è il fatto che i cristiani di Palestina accolgono i pellegrini condividendone la stessa fede. Se i cristiani sparissero da questo ambito, i pellegrini stranieri non troverebbero che chiese vuote e pietre morte.

Cosa occorrerebbe fare, secondo lei, per salvare il turismo in Palestina?
Bisogna preparare un piano marketing complessivo per il dopo-crisi, puntando ad attirare turisti da tutto il mondo. E bisogna cominciare a ideare quel piano sin d’ora. Il settore privato non può farcela da solo. Il governo palestinese deve intervenire per guidare questo sforzo che mira a promuovere il Paese come destinazione turistica. È un ruolo che compete alle autorità pubbliche, al ministero del Turismo. Se non ci prepariamo per tempo, i flussi turistici, quando riprenderanno, saranno monopolizzati dalle agenzie israeliane che trarranno vantaggio dal controllo israeliano del territorio, dei Luoghi Santi e dei vari siti (archeologici).

Che ruolo possono giocare le Chiese su questo versante?
Le Chiese hanno la capacità di incoraggiare i pellegrini a venire in Terra Santa e potrebbero già cominciare a farlo. L’appello a visitare la Terra Santa non appena possibile potrebbe partire dal Papa e avrebbe certamente ampia eco. Le diocesi, principali organizzatrici dei pellegrinaggi, che hanno legami diretti con le parrocchie di Terra Santa, potrebbero concentrare i loro sforzi nel rilancio dei pellegrinaggi e nei viaggi verso la Palestina. Il che rappresenterebbe un volano anche per gli altri settori del turismo. Anche le Chiese locali di Terra Santa hanno un ruolo da giocare: i patriarcati, i vescovi, la Custodia possono incoraggiare i pellegrini con un appello simile a quello che fu lanciato dopo la seconda intifada (nel 2004 – ndr).

Quando pensa che ci sarà la ripresa del turismo in Palestina e in che modo?
Le condizioni attuali, soprattutto dopo l’inizio della seconda ondata del coronavirus, indicano che la fine non è prossima. Il turismo non riprenderà a crescere prima del giugno 2021. Occorrerà attendere fino a settembre, nel migliore dei casi, perché il comparto in Palestina recuperi il 25 per cento della forza che aveva nel 2019. Basterebbe a salvarlo, ma non si può che aspettare. Siamo in un momento difficile, però resto ottimista. Il turismo non può morire.


In cifre

Le entrate per servizi turistici in Palestina rappresentano il 40 per cento circa dei bonifici bancari provenienti dall’estero. Il comparto produce un fatturato di circa un miliardo di dollari e dà lavoro direttamente a 32 mila palestinesi. I servizi di trasporto, ospitalità, ristorazione e di guida turistica sono fonte di sostentamento per 10.300 famiglie.

Nel 2019 oltre 3 milioni e mezzo di turisti hanno visitato la Palestina e gli alberghi hanno raggiunto un tasso di occupazione delle camere del 70 per cento. Una simile crescita ha incoraggiato nuovi investimenti. Rispetto al 2018 sono state realizzate 155 mila nuove camere. Il crollo a picco degli arrivi turistici a causa della pandemia ha provocato perdite dirette per 145 milioni di dollari nel settore alberghiero e di 7,5 milioni nella ristorazione, oltre a 85 milioni di debiti per i proprietari di bus turistici. Complessivamente le perdite del comparto turismo in Palestina hanno superato i 320 milioni di dollari.

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