«Da diversi giorni ormai vivo nel nostro convento in una stanza rimasta senza finestre e senza porte, come la gran parte della gente di Beirut che ha perso un tetto o ha avuto la casa gravemente danneggiata. Quando giro per strada, tocco con mano la sofferenza della gente, che chiede un conforto spirituale prima che un aiuto economico. Il popolo libanese è in ginocchio, sfiduciato… Sembra che nulla in questo Paese possa avere giustizia, possa conoscere la verità».
Fra Firas Lutfi, guardiano del convento di San Giuseppe a Beirut e superiore della Regione San Paolo (organismo che fa capo alla Custodia di Terra Santa e coordina i frati minori che operano in Libano, Siria e Giordania), di passaggio da Roma, racconta il terribile momento che il Paese dei Cedri attraversa dopo la devastante esplosione che ha letteralmente raso al suolo il porto e gravemente lesionato tre popolari quartieri centrali, ospedali, scuole e infrastrutture…
Il bilancio è tristemente noto: almeno 170 morti, 6 mila feriti, 300 sfollati senza tetto, per non parlare dei dispersi, ancora sotto le macerie delle case.
«Vedere Beirut ridotta in questo modo fa davvero impressione. Una città fantasma. La gente è ancora incredula dell’accaduto. Chi si reca nella zona del porto, dove sorgeva il magazzino (contenente le 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio – ndr) non si capacita di come sia potuto accadere. Tutti si chiedono il perché. Qualcuno mi ha detto che Beirut sembra tornata all’età della pietra».
La capitale e l’intero Libano, negli scorsi mesi e ben prima dell’esplosione del 4 agosto, stavano vivendo una situazione molto delicata a causa della crisi economico-finanziaria e a motivo della pandemia Covid-19. Con le dimissioni dell’intero governo – il 10 agosto – in seguito alle proteste di piazza e con l’aggravarsi della crisi umanitaria, il Paese sembra essersi avvitato in una spirale senza fine. L’attesa sentenza della Corte internazionale dell’Aja sull’assassinio di Rafic Hariri, che il 18 agosto non ha individuato i colpevoli e ha di fatto scagionato il movimento Hezbollah e la Siria, ha creato ulteriore sconforto nell’opinione pubblica. «Sembra – prosegue il religioso – che nulla in Libano possa trovare una risposta, possa avere un responsabile. Ed è quello che la gente teme anche a proposito dell’esplosione. Chi aveva la responsabilità di sorvegliare? Perché quel carico pericoloso è restato nel cuore della città per sei anni? Come mai nessuno è intervenuto per scongiurare una tragedia annunciata?».
Un nuovo lockdown
Il senso generale di scoramento viene aggravato dalla pandemia: «Da domani 20 agosto il Libano si prepara ad altre due settimane di lockdown. Ci sono stati almeno 300 casi negli scorsi giorni. E gli ospedali non sono neppure in grado di fare fronte all’ordinaria amministrazione. Stanno arrivando ospedali da campo dalla Francia, dall’Egitto e dal Qatar, che avranno soprattutto lo scopo di sopperire agli ospedali distrutti dall’esplosione».
Oltre all’emergenza sanitaria dei feriti e del crescente numero di contagiati da coronavirus, in città è in atto una vera e propria emergenza umanitaria: «C’è chi chiede da mangiare, c’è chi implora un aiuto per sistemare la casa. Nessuno si attende aiuti dal governo… Una parte dei 300 mila sfollati è potuta tornare nei villaggi d’origine sulle montagne, ma molti non hanno un posto dove andare. Chiese, conventi e strutture ecclesiastiche stanno attrezzandosi per ospitare le famiglie. Già 600 nuclei famigliari hanno avuto un posto, ma moltissimo resta da fare. Appena sarà possibile, spero a breve, cercheremo di aprire una parte del nostro convento all’accoglienza delle famiglie che hanno perso casa. Prima delle pietre del nostro convento, vorremmo prenderci cura delle pietre vive di questa terra, dei cristiani, della gente che sta tanto soffrendo».
Pandemia siriana
Qualche giorno prima dell’esplosione, fra Firas si trovava in Siria, per far visita alle comunità locali. Da siriano, il religioso continua a seguire con grande attenzione e apprensione quello che accade nel Paese, dove la situazione sanitaria legata al Covid-19 sembra ormai fuori controllo. «Il governo non è nelle condizioni di chiudere nulla, perché dopo 10 anni di guerra la popolazione è allo stremo e solo chi lavora a giornata è in grado di sfamare la propria famiglia. Di fatto i siriani sfidano il Covid-19, perché l’unica possibilità di mangiare è quella di lavorare. Il risultato è drammatico. Il numero dei morti lievita ogni giorno. Ormai abbiamo 61 decessi tra i medici degli ospedali e un numero impressionante di morti e contagiati tra gli infermieri. Anche otto nostri frati sono risultati positivi e un confratello, fra Edoardo, è deceduto qualche giorno fa. Ad Aleppo e Damasco gli ospedali sono strapieni di pazienti affetti da coronavirus. In ogni casa siriana praticamente c’è un contagiato, anche se dei numeri non si parla. Ma a chi giova?».
Un soccorso al Libano
«La prima necessità – spiega fra Firas – è quella del cibo. Ma poi c’è anche un grave problema psicologico. Tutti quelli che hanno patito le conseguenze dell’esplosione sono gravemente provati e vivono stati d’ansia e di panico. Sono ferite molto profonde che hanno colpito soprattutto i bambini e i ragazzi che hanno perso famigliari e conoscenti. Un’emergenza primaria è dunque quella sanitaria, perché negli ospedali ogni tipo di reparto è fuori uso. Mancano posti letto, apparecchiature e medicinali. Poi c’è la necessità legata alla casa. Oggi Beirut è una città spettrale. Per aiutare la gente a ritornare e la città a ripartire, prima dell’inverno, bisogna avviare progetti di recupero. Ci attendiamo che i donatori internazionali facciano la loro parte, ma piccoli progetti possono essere messi in campo anche grazie alla generosità di tanti piccoli benefattori. Invito tutti a fare proprie le parole di papa Francesco: dobbiamo avere uno sguardo di misericordia verso che è più in difficoltà. È vero che il mondo intero soffre, ma in Libano oggi serve restituire a tanta gente la speranza in una possibilità di vita e di futuro».