Sullo Yemen dilaniato dalla guerra, in questi giorni si sono abbattute piogge monsoniche che hanno causato morti e feriti. Oltre alla popolazione è colpito anche uno straordinario patrimonio culturale.
Non bastano quasi sei anni di guerra, una crisi umanitaria spaventosa, l’epidemia di colera peggiore degli ultimi due secoli e il Covid-19. Quel che accade in Yemen in questi giorni, se non fosse vero, sarebbe surreale. Le piogge monsoniche, che di solito si abbattono su tutta l’area del Golfo più vicina all’Oceano Indiano ogni anno in agosto, e che da alcuni anni sono diventate più intense, hanno letteralmente travolto il Paese, causando alluvioni in ogni regione, dalla capitale del Sud, Aden, alla antichissima capitale del Nord, Sana’a. Risultato: 130 morti complessivi ad oggi, altrettanti feriti, e migliaia di persone senza rifugio, le loro case ridotte in fango, polvere, macerie. Le immagini che arrivano da ogni angolo del Paese sono impressionanti ma quel che impressiona di più è lo stato in cui sono ridotti alcuni siti riconosciuti dall’Unesco come patrimoni dell’umanità, tra cui Shibam, nella regione dell’Hadramut, la città dei grattacieli più antichi del mondo, già ribattezzata «la Manhattan del deserto». Shibam appare completamente circondata dall’acqua, lì dove normalmente a circondarla c’è il deserto.
La situazione è ancora più drammatica nella città vecchia di Sana’a. Completamente circondata da un anello d’acqua, che si forma sistematicamente durante le piogge nella strada che la circonda, detta Saila, la città antica paga il prezzo di anni d’incuria totale: da quando la guerra è scoppiata, nel 2015, non esistono più programmi di mantenimento e conservazione, per tacere di alcuni edifici, colpiti dai missili della coalizione a guida saudita che sono andati distrutti e le cui macerie sono state lasciate in vista a bella posta, a futura memoria.
Le alluvioni sono state capaci di far di peggio: tra le abitazioni crollate a causa delle piogge anomale c’è anche la casa del più noto poeta yemenita del Novecento, Abdullah al-Baraduni. Morto nel 1999 all’età di 70 anni, cieco e povero, al-Baraduni aveva già previsto il declino della città nei suoi versi. Nella lirica Invasione dall’interno scriveva, riferendosi alla città di Sana’a:
Non puoi sapere ciò che sta per accadere
Oh quanto è terribile
e se lo sapessi,
oh è molto più terribile saperlo
se tu sapessi
o Sana’a
chi ti ha occupato in segreto
invasori che non vedi
mentre il pugnale è già piantato nel mio cuore e lo conquista
come il male che entra, si insinua lento
dal fumo del tabacco
da una sigaretta che seduce
questo è l’atto di carità di un mostro
(trad. arabo-italiano al-Jalal/Battaglia, 2016).
Il crollo della casa di al-Baraduni, uno tra gli ultimi intellettuali liberi dello Yemen, noto anche per le sue posizioni critiche nei confronti dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, è stata vissuta come un evento simbolico molto negativo per molti yemeniti ancora residenti nel Paese e per molti altri che vivono all’estero. A ciò si è appena aggiunta la dipartita di Mohanad al-Sayani, direttore generale delle Antichità e dei Musei dello Yemen, colpito dal coronavirus. Una perdita che anche negli uffici dell’Unesco è considerata gravissima, essendo al-Sayani uno dei più agguerriti difensori del patrimonio yemenita e anche uno dei più competenti storici dell’arte locali. Alexander Nagel, ricercatore allo Smithsonian Institution di Washington D.C., che per anni ha tracciato il patrimonio yemenita trafficato all’estero, in collaborazione con al-Sayani, così scrive di lui: «Tutto il mondo accademico attento al patrimonio culturale yemenita e ai suoi musei ha oggi perso il suo campione migliore».
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
—
Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).
Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).