Che cosa è andato storto nelle Primavere arabe? In che modo la disgregazione dell’ordine internazionale successivo alla fine della Guerra Fredda e dell’unipolarismo americano continua a fomentare la sete di «pane e giustizia» nel Nord Africa e in Medio Oriente? Traccia un bilancio di grande profondità di visione sui rivolgimenti ancora in corso la storica Marcella Emiliani – già docente presso l’Università di Bologna e tra i maggiori esperti italiani dell’area – nell’intenso saggio Purgatorio arabo. Il tradimento delle rivoluzioni in Medio Oriente, edito da Laterza.
Ideale continuazione dei due volumi Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991 e Medio Oriente. Una storia dal 1991 ai giorni nostri (Laterza 2012) – tra i più completi e autorevoli tentativi condotti nella saggistica italiana di ripercorrere la nascita e gli ultimi cent’anni del Medio Oriente moderno – la ricostruzione della Emiliani ripercorre con accuratezza e giudizi precisi le cause e gli sviluppi delle rivolte innescate esattamente dieci anni fa, il 6 giugno 2010, dall’omicidio in un Internet cafè di Alessandria d’Egitto del 28enne Khaled Said, percosso fino alla morte dalla polizia solo perché senza documenti.
La creazione su Facebook della pagina Kullena Khaled Said, ovvero «Siamo tutti Khaled Said» fu il primo passo della mobilitazione che portò decine di migliaia di attivisti il 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir e 18 giorni dopo, l’11 febbraio, alla destituzione del presidente Hosni Mubarak. Un’analoga mobilitazione era scattata intanto in Tunisia dopo che il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi si era dato fuoco come uno Jan Palach del mondo arabo, fino a portare alla fuga del presidente tunisino Ben Ali il 14 gennaio 2011. Proprio in Tunisia, «il Paese più occidentalizzato dell’area e quello che ha assorbito meglio e prima di altri i valori della modernizzazione e della liberal-democrazia» rimarca Emiliani, nonostante alcuni omicidi nel 2013 e gli attentati dell’Isis nel 2015, la maggiore capacità organizzativa della società civile (si vedano il ruolo della Confindustria tunisina e del sindacato Uggt) hanno permesso, almeno in parte, di pilotare il processo di democratizzazione del Paese, sempre minacciato – oltre che da frange di salafiti radicali e jihadisti – dai problemi economici che lo rendono soggetto ai prestiti del Fondo monetario internazionale. È un fatto che la modernizzazione avviata in Tunisia già negli anni di Habib Bourghiba (presidente tra il 1957 e il 1987) abbia protetto il Paese dalle guerre religiose fratricide fra Arabia Saudita e Iran che hanno messo in ginocchio lo Yemen e scosso il Bahrein, come argomenta la saggista.
In Egitto le cause del fallimento vanno ascritte al radicamento strutturale delle forze armate nelle istituzioni statali, alla debolezza della borghesia, al progressivo giro di vite del regime del generale Abdel Fattah al-Sisi sugli attivisti (come si è tragicamente visto con i depistaggi e il rifiuto di collaborare con la magistratura italiana per appurare la verità sull’omicidio di Giulio Regeni). Altrove le ragioni sono diverse: la catastrofe dell’implosione della Libia si spiega con l’estrema durezza della repressione, che ha finito per trasformare la natura delle proteste iniziate il 15 febbraio 2011 a Bengasi per una maggior giustizia sociale, dignità e diritti in una vera e propria ribellione contro la dittatura del colonnello Muhammar Gheddafi. Come, con esiti diversi, è avvenuto in Siria. È soprattutto nel lungo capitolo dedicato alla sanguinosa guerra civile che ha distrutto il Paese che era il bastione della stabilità regionale che la Emiliani mostra la profondità della sua conoscenza della natura dei regimi, della corruzione e dell’inefficienza dei corpi dello Stato che hanno impedito a queste nazioni di dirimere nei decenni passati i problemi dello sviluppo, dell’equa distribuzione delle risorse nazionali e di una maggiore partecipazione dei cittadini ai processi politici e di costruzione dello Stato, fino a rendere possibile l’irruzione del Califfato islamico.
Pagina dopo pagina, la studiosa spiega come all’assassinio della nazione siriana abbiano contribuito non solo la pletora di attori statali e parastatali che hanno affollato la trincea siriana, ma la stessa «architettura della violenza» adottata dal presidente Bashar al Assad nella seconda metà del 2011 con la scarcerazione degli estremisti islamici più pericolosi e con la disgregazione dell’unità nazionale: lo conferma tra l’altro l’analisi sulla conquista di una maggiore autonomia nel Kurdistan siriano ed il ruolo cruciale svolto dai curdi nella sconfitta dello Stato islamico. La violenza infatti, ricorda la studiosa, non è solo nell’uso della forza contro i civili inermi. «Violenza – chiosa l’autrice – è anche studiare politiche volte a moltiplicare il caos per strumentalizzarlo: una lezione che in Siria hanno imparato tanto il regime quanto i suoi diversi oppositori». Riflessioni di enorme interesse per immaginare il futuro di una regione strategica per il mondo, e non solo per il Mediterraneo, scivolata negli ultimi dieci anni in un inferno, o quanto meno in uno spazio politico intermedio che assomiglia più a un purgatorio, scrive la Emiliani, che ad una transizione fra le vecchie dittature militari ed un ordine politico vicino ad una qualche forma di democrazia che questi popoli non hanno ancora conosciuto.
Marcella Emiliani
Purgatorio arabo
Il tradimento delle rivoluzioni in Medio Oriente
Ed. Laterza, 2020
pp. 264 – 20,00 euro