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Quarantene in Medio Oriente, una tempesta creativa

Laura Silvia Battaglia
30 maggio 2020
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Le misure introdotte per contrastare la pandemia da coronavirus hanno stimolato nuove interazioni tra artisti e la crescita di reti radiofoniche. Oltre i limiti e i confini nazionali, molti giovani musicisti mediorientali hanno saputo cogliere l'attimo.


L’immobilità corporea costringe l’anima a movimenti verticali e così, in un momento storico come nessun altro, in cui il divano diventa il tappeto del fachiro, gli intellettuali e gli artisti creano, tanto a Occidente che ad Oriente.

Se in Europa sono fiorite numerose attività creative (cinematografiche, fotografiche, di scrittura, musicali), che si possono riassumere con la categoria generale dei «diari della quarantena», in Medio Oriente il lockdown ha reso possibili molte interazioni, soprattutto musicali e la crescita di altrettanti network radiofonici, che hanno alimentato la produzione di podcast. Tutto questo senza distinzioni nazionali ma con tanta collaborazione oltre limiti e confini, tanto da poter fare parlare di «tempesta creativa».

Nei Territori palestinesi, i flussi techno live on line di Unite – un collettivo musicale lanciato dall’artista techno palestinese Dj Sama con gli amici Dj Dar e Darbak – stanno sostituendo i rave regolari che si tenevano prima dell’avvento del Covid-19 in un ristorante sotterraneo dove «la cucina era la cabina del dj».

Questa modalità non dispiace ai creativi. Dj Sama, inervistato da The New Arab, confessa: «La musica si è sempre evoluta ed è emersa da momenti surreali come questo, in cui alcune cose incredibili stanno illuminando un momento oscuro. In questa situazione mi sento come se avessi trascorso metà della mia vita precedente bloccato. E mentre il mondo è nel panico, provo un senso di calma perché so che tutto questo, prima o poi, passerà».

A Beirut, mentre si configurava la necessità della quarantena, è nata, da un giorno all’altro, Radio Yamakan, una rete di flusso che ospita diversi generi musicali provenienti da tutto il Medio Oriente. Radio Yamakan è stata lanciata dall’ingegnere 32enne progettista di sistemi informatici Majd al-Shihabi. Al Shihabi, un rifugiato palestinese di terza generazione, nato nella capitale siriana Damasco, fa sapere che è stato ispirato da Radio al Hai, una radio di flusso live lanciata nel marzo scorso per riempire a Beirut il vuoto di spazi fisici dedicati alle esibizioni musicali.

In particolare, intorno al progetto si è coagulata una varia umanità che brulicava nella sede di Mansion, un edificio abbandonato della città, trasformato in uno spazio collettivo e utilizzato dalla comunità artistica underground di Beirut per ben otto anni prima che fosse chiuso. Al Shihabi non si è arreso e ha allargato la comunità, coinvolgendo virtualmente in streaming artisti arabi da Siria, Palestina, Tunisia, Marocco, Egitto, Libano e anche da Berlino. Ed è così nato Yamakan che significa, nostalgicamente, «c’era una volta un posto».

Il progetto non è solo una soluzione concreta al lockdown: è anche una protesta politica. «Qui siamo tutti progressisti. Non permettiamo comportamenti omofobici, razzisti o sessisti e agiamo in solidarietà – dice Majd al-Shihabi –. In realtà riteniamo reazionarie le modalità di attivazione del lockdown in Libano e la nostra protesta vuole anche essere una risposta alla mancanza a lungo termine di spazi pubblici a Beirut». Allo stesso tempo, lo streaming è una finestra «verso il resto del mondo che può vedere cosa significa vivere in lockdown per noi, ed è anche un mood per sviluppare empatia vicendevole verso gli altri».

In quanto radio di flusso, il progetto Yamakan ospita la radio palestinese Al Ahara. L’emittente ha un seguito di 5 milioni di ascoltatori che si estende dal Brasile a Taiwan. Il suo segmento settimanale di musica underground si chiama Asaas (in arabo, «basso»), e presenta ritmi e pezzi contemporanei di elettronica sperimentale, techno, disco funk brasiliano soul e hip-hop arabo. Il curatore Rojeh Khleif è molto soddisfatto perché, grazie alla quarantena, è riuscito ad includere nel programma artisti acclamati che «altrimenti non sarebbero stati disponibili in tempi ordinari». E aggiunge: «La quarantena è un momento d’oro. Sto facendo tutte le cose che normalmente faccio come contattare artisti, grafici, organizzare eventi, ma lavoro solo online. Consumo meno, trascorro più tempo in famiglia e porto avanti nuovi progetti per il tempo che verrà. In fondo, noi palestinesi abbiamo sempre vissuto in un clima di coprifuoco e per noi è stato sempre molto difficile viaggiare. Adesso, attraverso questo canale, stiamo aprendo delle frontiere virtuali, stiamo entrando in contatto con centinaia di persone, artisti, professionisti, e creativi. Così lo streaming è diventato un ponte, il migliore possibile, verso il mondo di fuori».


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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