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«Porta e non muro»: Luigi Padovese a dieci anni dall’uccisione

Terrasanta.net
1 giugno 2020
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«Porta e non muro»: Luigi Padovese a dieci anni dall’uccisione
Luigi Padovese, vicario apostolico dell'Anatolia dal 2004 al 2010

Il 3 giugno 2010, a Iskenderun (Turchia) veniva ucciso dal suo autista mons. Luigi Padovese, cappuccino e vescovo cattolico in Anatolia. Le ragioni di quell’omicidio non sono mai state veramente chiarite. Nel decennale della scomparsa, un ricordo di Padovese nelle parole dell’allora ministro generale dei cappuccini.


Fra Mauro Jöhri, dal 2006 al 2018 è stato il ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, al quale apparteneva monsignor Luigi Padovese. Riportiamo qui la postfazione da lui scritta per il volume La verità nell’amore che raccoglie le omelie e gli scritti del vescovo, nel decennale del suo martirio avvenuto il 3 giugno 2010.

«È davvero toccante – sono le parole che pronunciò Luigi Padovese nel ringraziamento al termine della sua ordinazione episcopale – pensare che le radici della Chiesa affondano anche geograficamente in questo suolo che noi calpestiamo. Reputo un grande onore e una forte responsabilità guidare questa Chiesa ridotta per numero, non per la vivacità delle persone che la compongono e pure ricca di memorie cristiane» (Iskenderun, 7 novembre 2004).

Monsignor Padovese, lo studioso e l’insegnante chiamato a essere Pastore, si metteva a servizio della Chiesa di Anatolia con tutto se stesso. Lo ripeterà molte volte nelle sue omelie non solo per incoraggiare la piccola comunità cattolica o per dare coraggio alla sua voce: egli voleva bene per davvero alla gente di Turchia. Aveva ben chiaro che doveva prima di tutto custodire e nutrire la loro fede in Cristo. Non era dunque il passato, seppur glorioso e che aveva avuto tra i membri della Chiesa gli apostoli Pietro, Paolo e Giovanni, a rendere grande la Chiesa di Anatolia, era l’oggi del piccolo gregge cosciente della propria «identità di cristiani» a dover amare, guidare e servire.

«È un dono essere cristiani in Turchia oggi – affermava – e una grazia appartenere a questa Chiesa che è l’erede della prima Chiesa cristiana… La Chiesa di Anatolia è una Chiesa viva» (Mersin, dicembre 2005). Viva per il candore dei suoi martiri, viva oggi per il candore della sua testimonianza.

Cosciente che il suo servizio ministeriale alla Chiesa di Anatolia non era per conservare delle reliquie, ma per far parte di un corpo vivo, di una Chiesa certa dall’amore di Dio, affrancata dalla paura, unita alla Chiesa universale e guardata con sollecitudine dal Papa, più volte nelle sue omelie rinfranca e sostiene la comunità cristiana affermando di essere contento di stare in Turchia, di amare la Chiesa di Anatolia e di volerla servire sino alla fine. Con una semplicità disarmante richiamava la sua comunità a ricentrare il compito della piccola Chiesa di Anatolia nel grande annuncio del vangelo: rigenerarsi nel rapporto vitale con Cristo. Il Servo dell’obbedienza al Padre, il Figlio dell’Uomo Unico Salvatore, l’Amore fatto Presenza.

Una consapevolezza espressa con lucidità e chiarezza nel suo primo discorso da Vescovo. «Episcopato è il nome di un servizio, non di un onore. È nello Spirito di queste parole che intendo adempiere il nuovo ministero. Credo fermamente che una vita è vissuta bene quando è spesa per gli altri, così come credo che la porta della felicità si apre soltanto verso l’esterno» (Iskenderun, 7 novembre 2004).

Parole profetiche: servo, porta, felicità. Il suo ministero sacerdotale, la sua tensione al dialogo, il suo sorriso gentile.

Servo, una parola, come lui stesso ci dice, imparata da San Francesco che «l’usava quale filtro di lettura di tutta la vicenda umana di Gesù, dall’incarnazione alla morte in croce, ma è divenuta pure chiave per comprendere il suo cammino spirituale» (Milano, 29 settembre 2007). A questo filtro francescano monsignor Luigi Padovese aveva aggiunto tutte le espressioni trovate e lette nei testi dei Padri della Chiesa, da Ignazio di Antiochia a Policarpo di Smirne, da Girolamo ad Ambrogio. «Servo è colui che imita Cristo fino al dono di sé!».

Ai suoi preti nell’omelia alla Messa del Crisma (Giovedì Santo del 2007) ricordava che «il sacerdozio è una vocazione al servizio» sull’esempio di Cristo, e a padre Pierre Brunissen in occasione del 50° di sacerdozio citando Sant’Agostino con forza evidenziava: «Ora il Signore ti dice: scendi a terra a lavorare, a servire, ad essere disprezzato, a essere crocifisso. È discesa la Vita per farsi uccidere; è disceso il Pane per soffrire la fame; è discesa la Via per stancarsi sulla via; è discesa la Sorgente per soffrire la sete… Non cercare allora il tuo interesse. Abbi la carità, proclama la verità: perverrai all’eternità, troverai la pace» (Strasburgo, 22 luglio 2007).

Monsignor Luigi Padovese sapeva trovare, pur nella semplicità e nella brevità delle sue omelie, il modo di esprimere il suo essere in terra di Turchia per servire Cristo e la sua Chiesa. Avrà monsignor Luigi Padovese messo in conto di dare la vita con quella modalità così violenta? È un mistero che lasciamo nel cuore di Dio e nel suo cuore, contemplando con fede le vie imperscrutabili del Signore.

Dalle omelie traspare inoltre la sua radicale testimonianza di Cristo e l’annuncio del vangelo, con il suo personale stile, appreso da San Francesco e dai cappuccini. Uno stile nell’orizzonte della letizia e della consapevolezza di essere cercatore dell’amore di Dio e allo stesso tempo pellegrino insieme a tutti gli uomini amati dal Signore.

«Porta e non muro», così lo ha definito il cardinale Dionigi Tettamanzi al primo annuncio della notizia della sua uccisione. Era la sera della festa del Corpus Domini ed il cardinale si avviava a guidare la processione eucaristica per le vie della città. Una coincidenza oppure un segno del metodo che monsignor Luigi Padovese aveva scelto per essere Pastore e per educare la comunità cristiana dell’Anatolia al dialogo?

Nella sua ultima omelia, lucidamente e con grande chiarezza, esprimeva la strada che stava percorrendo nel campo del dialogo. «In Turchia si impara ad accettare la diversità, ma è importante anche farsi accettare. A questo proposito, l’unica strada è quella della cordialità e dell’amicizia. Ho cercato il dialogo con le autorità e con il mondo mussulmano e sono sempre più convinto che il dialogo, prima di essere un incontro e confronto di idee, deve essere un incontro tra uomini che hanno cuore oltreché mente. Se un dialogo non coinvolge il cuore non serve molto» (Stegaurach, 30 maggio 2010).

Capire e accettare la diversità era per monsignor Luigi Padovese il luogo concreto per ritrovare nella differenza l’unica radice comune, l’essere creatura dipendente da Dio e bisognosa dell’altro. Su questa base è così possibile riannodare il dialogo, la comprensione, l’amicizia, il desiderio di parlarsi e di sedersi insieme, uno accanto all’altro. […]

«Se crediamo che veramente Dio è Padre e ci ama, l’atteggiamento che da cristiani dobbiamo avere è quello di un abbandono fiducioso nelle sue mani. Dio sa qual è il nostro vero bene. Fidiamoci di Lui e chiediamo che sia Lui ad orientare il nostro futuro» (Turchia, 31 dicembre 2006).

Monsignor Luigi Padovese si è abbandonato fiducioso nella mano di Dio che lo ha sparso nel buon terreno della Chiesa di Turchia per diventare seme buono per una messe buona.

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