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I lavoratori palestinesi senza difese davanti al Covid-19

Chiara Cruciati
9 aprile 2020
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I lavoratori palestinesi senza difese davanti al Covid-19
Operazioni di disinfezione in una strada di Rafah, Striscia di Gaza (foto Abed Rahim Khatib/Flash90)

Molti palestinesi dipendono per il loro lavoro dall’economia israeliana, frenata dalla pandemia, e non usufruiscono di ammortizzatori sociali. Con il turismo azzerato, la fragile economia palestinese rischia di lasciare in miseria la maggior parte delle famiglie.


La Domenica delle Palme nell’anno del Covid-19 non ha risuonato dei canti della tradizionale processione, dal Monte degli Olivi alla città vecchia di Gerusalemme, che vede protagonisti i villaggi cristiani di Palestina. Una Pasqua silenziosa nella Città Santa come a Betlemme. E di sofferenza: l’assenza di un paracadute sociale getta nella paura milioni di persone.

Al-Obediyya è una cittadina di passaggio. Tra Betlemme, Gerusalemme e Ramallah, per muoversi dal nord al sud della Cisgiordania attraversarla è d’obbligo. Il Mar Morto dista pochi chilometri, il monastero di Mar Saba, scolpito nella roccia del deserto, è ancora più vicino. Qui moltissimi hanno impieghi, legali o illegali, a Gerusalemme. Nelle costruzioni, per lo più.

Tra loro c’è Ahmad. Una moglie impiegata pubblica, due figli, come tanti ha ascoltato l’appello del premier palestinese Mohammad Shtayyeh che ai lavoratori in Israele ha chiesto di fermarsi volontariamente: «Lavoro per una ditta di subappalto palestinese a Gerusalemme. Non lavoro dall’inizio della chiusura di Betlemme – ci dice – per evitare i checkpoint, gli assembramenti in fila, e per non dover restare lì a dormire, senza alcuna assistenza. Sono muratore, guadagno tra i 200 e i 300 shekel al giorno (50-76 euro, ndr). Ora non ho entrate. Non abbiamo contratti mensili, ci pagano a giornata».

Simile la situazione di Mahmoud. Ingegnere elettrico, è impiegato da ditte private di costruzioni in Cisgiordania. «Non ho uno stipendio mensile, ma a giornata. Sono fermo da un mese, passo il tempo chiuso a casa – ci racconta –. Non esistono ammortizzatori sociali per far fronte alla sospensione del lavoro. Se non lavoro non guadagno. Vivo con la mia famiglia, abbiamo l’orto e cibo non manca. Ma dovesse durare a lungo, non so come affronteremo questa situazione».

Non va meglio a chi lavora per l’Autorità nazionale palestinese, tradizionale bacino di assorbimento di disoccupati: per garantire salari e soprattutto evitare proteste, il governo di Ramallah assume più del doppio di dipendenti pubblici che gli servirebbero, tra insegnanti, forze di polizia, sanitari, vigili del fuoco, 155 mila a fronte di una necessità effettiva di 60-70 mila unità.

Ma la crisi è strutturale, il coronavirus l’ha solo aggravata: «Sono insegnante. Da marzo 2019 lo stipendio andava e veniva, niente per mesi interi, a volte la metà – ci spiega Zeinab, insegnante di inglese in una scuola pubblica –. Lo scorso febbraio finalmente avevano pagato tutto. Ora la chiusura delle scuole per noi significa il rischio di un congelamento dello stipendio».

Il blocco totale del turismo

I timori per la tenuta della già fragilissima economia palestinesi si moltiplicano. Una società dipendente come la sua economia, sotto occupazione israeliana, non ha i mezzi per reggere. La fame non è uno spettro così fantasioso, è reale. Prima si è fermato il turismo, cuore pulsante dell’economia di Betlemme, e ora tutte le attività della Cisgiordania, lasciando 2 milioni e mezzo di persone senza sostegno. Un piccolo passo è stato compiuto il 29 marzo: l’Anp ha annunciato al sindacato Gupw, L’unione generale dei lavoratori palestinesi, un fondo di dieci milioni di shekel (circa 2,5 milioni di euro) per lavoratori e disoccupati.

La chiusura che ha riguardato Betlemme all’inizio di marzo e, a pioggia, il resto della Cisgiordania non aveva toccato i lavoratori palestinesi impiegati in Israele o nelle colonie israeliane. Consapevole delle perdite economiche e non interessato alle loro condizioni di salute, Tel Aviv aveva permesso ai lavoratori legali di continuare a lavorare, purché si fermassero sul posto di lavoro a dormire, non assumendosi la responsabilità di fornire loro luoghi dove restare. Ad Al Jazeera alcuni lavoratori hanno raccontato di essere tornati in Cisgiordania dopo aver visto gli alloggi messi a disposizione dai datori di lavoro: piccole stanze con 20 materassi a terra.

Pesach e i rientri pericolosi

Con l’arrivo della Pasqua ebraica, Israele chiude tutto, dall’8 al 15 aprile. Di conseguenza si è verificato il ritorno di almeno 45 mila persone nei villaggi di origine, un rientro che ha terrorizzato l’Anp per il rischio di contagi che porta con sé. È quanto accaduto finora, la maggior parte dei casi registrati in Cisgiordania – 263 a giovedì 9 aprile – è «di ritorno», dovuto al rientro dei lavoratori palestinesi da Israele che di casi ne conta molto di più (8.611), probabilmente anche per il maggior numero di tamponi fatti. I focolai individuati sono due: un allevamento di pollame ad Atarot (41 lavoratori palestinesi positivi su 500) e un secondo allevamento a Lod (11 palestinesi contagiati). Il rientro a casa ha provocato un’impennata dei casi in diverse comunità, con Biddou e Qatanna tra le più colpite.

L’Anp ha predisposto cliniche mobili ai checkpoint, dove misura la febbre ai lavoratori che tornano a casa, e imposto loro 14 giorni di quarantena obbligatoria. Più facile individuare quelli con permesso, ma sono decine di migliaia gli irregolari, lavoratori senza permesso che si guadagnano da vivere passando al di là del muro. Senza contratto, diritti né assistenza sanitaria, rischiano più di tutti.

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