«“Camminiamo verso la vittoria”. Mentre venivano pronunciate queste parole accadde qualcosa. Mi sentii come sollevata in aria. Non mi ero accorta che fosse una bomba», dice dalla sedia a rotelle dove è inchiodata dal 20 luglio 2015, quando ha perso l’uso delle gambe, Güneş Erzurumluoğlu, studentessa di 24 anni. «Ci eravamo messe in viaggio perché niente fosse più come prima. La nostra rabbia non ha fine. Certamente, una volta tornate in piedi, riprenderemo il nostro posto nelle fila della lotta con la stessa energia di prima, ma questa storia e tutte le persone che abbiamo perso rappresenteranno una ferita che nella nostra vita sanguinerà per sempre» le fa eco Gökçe Şetin, un’insegnante di 29 anni, anche lei rimasta per mesi in ospedale. Le due giovani donne sono fra gli oltre cento sopravvissuti all’attentato terroristico che il 20 luglio 2015 – provocando 33 vittime – colpì la turca cittadina di Suruc, al confine con la Siria, mentre era in corso una manifestazione a favore dei diritti dei curdi di Kobane, considerata la città-martire della rivoluzione del Rojava. Le loro testimonianze sono state raccolte dalla giornalista Arzu Demir nel libro Andare a Kobânê.
Nata a Istanbul, 46 anni, autrice di saggi e reportage sull’attualità del Medio Oriente, la Demir è stata condannata nel 2016 a sei anni di carcere in Turchia con l’accusa di aver utilizzato i suoi libri per fare propaganda terroristica in sostegno al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e per questo ha chiesto asilo politico al Belgio, dove risiede da tre anni.
Le storie dei sopravvissuti e di alcune delle 33 vittime, tutte giovanissime, della strage avvenuta nel giardino del Centro culturale Amar a Suruç forniscono alla cronista l’occasione per raccontare l’attivismo della società civile turca e uno spaccato di grande interesse su come moltissimi giovani curdi si siano mobilitati in questi anni per difendere i valori della rivoluzione del Rojava in Medio Oriente.
Abbiamo a che fare con un saggio, brillantemente tradotto da Francesco Marilungo, che non risparmia accuse pesantissime contro il regime del presidente Recep Tayyip Erdogan, che fin dal 2014 cercò di contrastare l’autonomia dei curdi siriani nei distretti di Kobane, Afrin e Jazira. Leggiamo in un passo: «Durante i giorni della difesa di Kobânê (nel 2014 – ndr) c’erano delle postazioni di guardia nella cittadina di confine Suruç. Decine di registrazioni video mostrano i banditi di Daesh (o Isis – ndr) attraversare il confine sotto il controllo dei soldati turchi. Per evitare questo passaggio, la gente tenne la guardia sul confine per giorni interi. Ogni mattina la gente volgeva lo sguardo verso Kobânê e salutava con slogan i partigiani che resistevano».
Così era nata nel luglio 2015 la campagna di solidarietà dopo la sconfitta dell’Isis promossa dai giovani socialisti turchi «L’abbiamo difesa insieme, la ricostruiremo insieme», un messaggio di pace e solidarietà destinato a essere travolto dalla bomba di un attentatore suicida dello Stato islamico. Immediatamente, scrive la Demir, sulla strage di Suruç cala la censura di Erdogan. Gli stessi social network vengono oscurati dal regime del “Sultano”, senza riuscire, però, a impedire che tra l’opinione pubblica circoli una domanda: come è stato possibile, per un attentatore e la sua ingente quantità di esplosivo, riuscire ad attraversare il blindatissimo confine turco-siriano?
Il laboratorio sociale e politico avviato nel 2012 con l’esperienza del Rojava è uno dei temi del dossier dedicato ai Curdi, il popolo invisibile al centro del numero di marzo-aprile 2020 della rivista Terrasanta.
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Arzu Demir
Andare a Kobânê
Red Star Press, Roma 2019
pp. 169 – 15,00 euro