È solo leggendo la retorica di un testo che promette di essere pragmatico ma in realtà lo è ben poco, che capisci sul serio cosa c'è che non va nel «Piano del secolo» elaborato alla Casa Bianca.
Un libro di 181 pagine è una lettura impegnativa. È più che comprensibile, quindi, la tentazione di fermarsi alle figure. Ma se viene presentato addirittura come l’«accordo del secolo» forse un’occhiata un po’ più approfondita anche alle parole della presentazione del piano di pace per il Medio Oriente di Donald Trump vale la pena di darla. Perché – a mio parere – sono le parole ancora più delle mappe ad aiutare a capire dove sta il problema fondamentale di questa iniziativa.
È solo leggendo la retorica di un testo che promette di essere pragmatico ma in realtà lo è ben poco, che capisci sul serio cosa c’è che non va. Perché la sfida della pace in Medio Oriente non è solo questione di linee tracciate come confini, di insediamenti da tenere o smantellare, prerogative da riconoscere. Tutto questo è ovviamente importante, ma viene dopo. Un piano di pace si fa a partire da una narrativa, da un’idea ben precisa su che cosa c’è alla radice di un conflitto e quali contorni dovrebbe avere quella situazione che definiamo come pace. Ecco: è a questo livello che l’«accordo del secolo» mostra tutta la sua inconsistenza.
Perché parte da una narrativa a senso unico. Una narrativa che da un punto di vista storico riconosce solo al popolo ebraico un legame con la terra che sta tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Agli arabi viene riconosciuto un legame solo religioso con la moschea di al Aqsa, nulla di più. Ed è una narrativa che rilegge la storia del Novecento addossando tutte le colpe del conflitto al mondo arabo-palestinese, senza riconoscere nemmeno la traccia di un errore nelle politiche adottate nel corso di settant’anni di vita dallo Stato di Israele.
Ancora: è una narrativa secondo cui le risoluzioni dell’Onu sul conflitto israelo-palestinese non sono state affatto un’occasione mancata, ma un’inutile perdita di tempo di una politica troppo poco pragmatica. Una narrativa secondo cui gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono tutti – dal primo all’ultimo – un’epopea storica. Al punto tale che non si può nemmeno pensare di sgomberare alcune migliaia di coloni (a spanne 10/15mila su 400 mila) che vivono in zone ancora più isolate delle altre e così sulla cartina spuntano comunque 15 enclave israeliane nel mezzo del frastagliato ed ipotetico Stato palestinese. Una narrativa in cui è dato come un fatto assodato che Israele sia lo Stato nazione degli ebrei e niente altro. Infatti, nelle mappe si vede poco, ma nascosto nel testo c’è anche l’ipotesi di trasferire all’ipotetico Stato palestinese gli arabi (oggi con cittadinanza israeliana) della città di Umm el Fahm in Galilea.
Ci sono però in particolare due punti di questa narrativa che meritano una sottolineatura particolare. Il primo è la rilettura che viene data degli anni del processo di Oslo: un’acrobazia di pessimo gusto. Benjamin Netanyahu è stato il grande oppositore di quel percorso e non c’era certo da aspettarsi che in un piano di pace confezionato a sua immagine e somiglianza vi fosse un’analisi seria sulle ragioni di quel fallimento. Ma arrivare ad affermare – come si fa nella sostanza a pagina 3 del volume – che in fondo la Vision di Trump è coerente con l’idea che aveva Rabin del processo di pace è insulto alla verità. Ed è offensivo rispetto alla sua memoria che a farlo siano quegli stessi ambienti che con la loro campagna durissima nelle piazze crearono il clima in cui maturò per mano di un estremista della destra nazionalista ebraica il suo assassinio nel 1995.
L’altro punto che mi ha colpito è – a pagina 15 – il passaggio dove si riassume in poche righe la storia della presenza cristiana a Gerusalemme. Una ricostruzione in cui al centro c’è il richiamo ai luoghi della vita di Gesù e poi la riconquista nel periodo delle crociate. Non c’è invece assolutamente alcun riferimento alle comunità arabo-cristiane e al loro contributo alla storia di questa terra. Nella narrativa dell’«accordo del secolo» Gerusalemme è un posto dove i cristiani vanno in pellegrinaggio, non un luogo dove delle Chiese e delle comunità ci vivono. Tra l’altro viene citato l’Accordo fondamentale del 1993 tra la Santa Sede e Israele, volutamente tralasciando però il fatto che un accordo dello stesso tipo esiste anche tra la Santa Sede e l’Autorità Nazionale Palestinese.
Sono solo alcuni esempi, se ne potrebbero fare anche tanti altri. Ma servono secondo me per ripartire da un fatto importante: finché la pace è ridotta alla narrativa più congeniale ai propri amici non c’è spazio per i processi di riconciliazione. Il che assegna una responsabilità importante a chi vuole davvero fare qualcosa per la pace.
Sappiamo tutti che questo piano non porterà da nessuna parte. Ma forse paradossalmente proprio questo piano ci rivela quale sia il primo ambito sul quale ricominciare a parlare sul serio di questo conflitto. Qual è la narrativa di pace – che si fa carico delle ragioni storiche, delle contraddizioni e delle sofferenze di tutti – che siamo in grado di contrapporre a questa visione? È tempo di ricominciare a costruirla. Perché le mappe, le carte, i confini potranno arrivare solo dopo.
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Perché La Porta di Jaffa
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.