(g.s.) – Il 22 gennaio scorso si è insediato a Beirut il nuovo governo libanese forgiato dal premier Hassan Diab. La prima riunione si è svolta al palazzo presidenziale, sotto la guida del capo dello Stato Michel Aoun.
È un passo avanti. Le istituzioni repubblicane escono così da uno stallo istituzionale che durava dall’autunno, nonostante i pressanti inviti a fare presto provenienti dall’interno del Paese e dalla comunità internazionale.
I ministri sono 20, di cui 6 donne. Tra loro 8 sono musulmani (4 sunniti e 4 sciiti), 10 cristiani (6 cattolici, maroniti e melchiti, e 4 ortodossi, greci e armeni), 2 drusi. Solamente due membri del nuovo governo (uno è il premier) hanno già alle spalle un’esperienza ministeriale. Tutti gli altri sono tecnici con competenze e professionalità le più varie, parecchi dei quali hanno percorso almeno un tratto della propria formazione accademica in un ateneo nordamericano o europeo. Altro elemento comune è l’insegnamento in una o l’altra delle molte università (private) presenti in Libano.
Far fronte alle emergenze
Il primo ministro Diab rimarca che l’esecutivo da lui formato è, in qualche modo, espressione delle richieste che salgono dalle manifestazioni popolari che si susseguono nelle piazze libanesi dallo scorso ottobre e tiene aperti canali di dialogo con le varie anime della protesta (sarebbero oltre un centinaio, a suo dire, i gruppi organizzati che la alimentano). Molti, tra gli osservatori e i manifestanti, pensano che il nuovo esecutivo sia stato plasmato essenzialmente dall’Alleanza 8 marzo, il raggruppamento di forze filo-siriano, nel quale gli sciiti di Hezbollah fanno la parte del leone.
Diab nei giorni scorsi ha fatto intendere che dovranno essere adottate misure coraggiose e in discontinuità con il passato. D’altronde, ha detto chiaramente, «siamo di fronte a una catastrofe e dobbiamo alleggerirne l’impatto e le ripercussioni sui libanesi». Il riferimento è alle drammatiche condizioni dell’economia nazionale.
Anche il presidente Aoun, facendo gli auguri ai ministri, non ha taciuto le difficoltà del compito che li attende. Si tratta, sostanzialmente, di lavorare per «restaurare la fiducia della comunità internazionale nelle istituzioni libanesi e rassicurare i libanesi riguardo al futuro». Su entrambi i fronti – interno ed esterno – guadagnarsi fiducia non sarà semplice. Le piazze non sembrano affatto disposte a fare sconti.
Intanto proprio oggi, 24 gennaio, è in corso una riunione interministeriale per la stesura del programma da presentare al Parlamento per ottenere almeno la sua di fiducia. Si respira aria di vigilia, in attesa di vedere quali saranno i piani del governo Diab, che dovrà misurarsi con un debito pubblico che ha raggiunto il 150 per cento del pil. Tra le misure possibili ci sarebbe l’eventualità di indurre i libanesi detentori di titoli di Stato a scadenza annuale ad accettare un prolungamento della durata per ridare fiato alle finanze statali. Misura rischiosa però, perché potrebbe inviare ai mercati un segnale di possibile insolvenza dello Stato libanese. Il quale, in questa fase di incertezze, non può neppure fare troppo affidamento sulle rimesse e i risparmi, versati in banche nazionali, dei libanesi della diaspora.
Altra gatta da pelare è il possibile ricorso al Fondo monetario internazionale per una cifra variabile tra i 20 e i 25 miliardi di dollari. L’intervento dell’organizzazione internazionale – per nulla scontato – imporrebbe l’adozione di misure di politica economica dolorose e impopolari. Senza contare che taluni economisti paventano un’imminente pesante fase di depressione in tutto l’Occidente.
Riuscirà il Libano a rimettersi in piedi? Lo capiremo, forse, nei prossimi giorni.