Sarà l'evento internazionale con la rappresentanza di più alto livello in tutta la storia di Israele: 49 i Paesi rappresentati da capi di Stato e di governo. Ad Auschwitz, in Polonia, giunge invece una delegazione musulmana d'alto rango.
Siamo ormai alla vigilia delle commemorazioni ufficiali dei 75 anni dalla liberazione del Campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, quel 27 gennaio 1945 in nome del quale si celebra ogni anno la Giornata della memoria per non dimenticare la vittime della Shoah. Come accade in qualsiasi anniversario «rotondo» la soglia dei tre quarti di secolo porta con sé eventi speciali: in questo caso il più importante sarà la cerimonia con le delegazioni ufficiali di ben 49 Paesi del mondo organizzata a Gerusalemme dalla presidenza di Israele allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah, per giovedì 23 gennaio. Si tratta di una commemorazione il cui spessore è andato crescendo di settimana in settimana: saranno presenti tra gli altri Vladimir Putin, il vice-presidente Usa Mike Pence, il presidente francese Emmanuel Macron, il principe Carlo d’Inghilterra, re Felipe di Spagna, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, tanto per citare qualche nome. Ci sarà anche l’Italia, rappresentata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e il Vaticano, con il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per l’ecumenismo.
Nei fatti, sarà l’evento internazionale con la rappresentanza di più alto livello in tutta la storia di Israele (la sera del 22 gennaio è prevista una cena alla residenza presidenziale e il 23 la cerimonia al Memoriale dell’Olocausto – ndr). Nemmeno i funerali di Yitzhak Rabin nel 1995 – nonostante quello che rappresentarono – attirarono a Gerusalemme così tante delegazioni ufficiali da tutto il mondo.
Solo che alla commemorazione dei 75 anni dalla liberazione di Auschwitz-Birkenau ci sarà un’assenza pesante: non sarà presente infatti la delegazione della Polonia, il Paese entro i cui confini si trovava quel campo di sterminio. In realtà il presidente polacco Andrzej Duda era stato invitato, ma ha deciso di boicottare l’evento in polemica con la scelta di far parlare durante la commemorazione ufficiale il presidente russo Putin e non lui. Questione delicatissima rispetto alla storiografia della Seconda guerra mondiale e della Shoah stessa, sulla quale Russia e Polonia hanno letture differenti. Ma anche questione che ha un preciso significato geopolitico oggi: la Russia di Putin è sotto ogni aspetto la potenza emergente in Medio Oriente e l’invito a parlare allo Yad Vashem nel momento più importante delle celebrazioni legate al 27 gennaio ha evidentemente un suo peso.
Il discorso però è anche un po’ più ampio e tocca l’intreccio che va crescendo in maniera preoccupante tra la Giornata della memoria e la politica. Lo si capisce bene da un’intervista di The Times of Israel al direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau, lo storico polacco Piotr Cywinski, rilanciata oggi alla vigilia della commemorazione. Cywinski pone infatti la domanda: che senso ha ricordare i 75 anni dalla liberazione di Auschwitz-Birkenau a Gerusalemme anziché nel luogo dove questo evento capitò e che di fatto è idealmente il cimitero di quei 6 milioni di morti, di cui ben 3 milioni erano ebrei polacchi? C’è evidentemente uno scontro di narrative, che va al di là della scelta degli oratori. Il punto, alla fine, è discutere se la risposta alla Shoah è solo Israele o se il dramma di Auschwitz-Birkenau ha un significato universale da preservare. È evidente che una «concorrenza» tra due luoghi come lo Yad Vashem ed Auschwitz-Birkenau non ha alcun senso. Però – proprio per questo – andrebbe posto un confine più chiaro rispetto alla geopolitica nelle celebrazioni per la Giornata della memoria.
Tema sul quale – va aggiunto – anche Auschwitz-Birkenau non è da meno rispetto a Gerusalemme. Proprio mentre si terrà la commemorazione allo Yad Vashem, infatti, lo stesso giovedì 23 l’ex campo di sterminio ospiterà una visita di peso. Per la prima volta nelle baracche che ricordano lo sterminio degli ebrei sosterà Mohammed al-Eissa, il segretario generale della Lega musulmana mondiale, organizzazione islamica internazionale fortemente sostenuta dall’Arabia Saudita. Ad accompagnarlo sarà David Harris, il direttore dell’American Jewish Committee, un’altra delle maggiori istituzioni ebraiche mondiali, il che darà evidentemente alla visita un significato importante dal punto di vista del dialogo interreligioso. Ma non sfugge a nessuno che un gesto del genere – compiuto in concomitanza con le celebrazioni del 27 gennaio – è un altro tassello nella campagna di promozione dell’immagine moderata del Paese portata avanti dal principe saudita Mohammed bin Salman.
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Perché La Porta di Jaffa
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.