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Una campagna internazionale per lo Yemen

Laura Silvia Battaglia
10 ottobre 2019
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C'è una raccolta di firme, che si diffonde in varie parti del mondo via social, per chiedere la fine della guerra in Yemen, con il suo bagaglio di morti, malattie e fame. Tra i promotori un bambino di nove anni.


Stavolta si augurano che questa campagna social abbia l’attenzione che merita, ma staremo a vedere. Si chiama #FastActionForYemen (Azione immediata per lo Yemen) ed è promossa, tra gli altri, dalla piattaforma della società civile internazionale Change.org.

L’obiettivo è riportare l’attenzione della politica sullo Yemen, apparentemente abbandonato a sé stesso dopo i colloqui di pace di Stoccolma dello scorso dicembre, che hanno visto una stretta di mano tra i belligeranti, ma le cui promesse sono state totalmente disattese. Quello che non riescono a fare le agenzie internazionali, dunque, sta cercando di fare la società civile, partendo da Hamza Hakim Almasmari, un ragazzino di nove anni che ha ideato la campagna nel giorno del suo compleanno, mostrandosi in video e foto con un piatto vuoto in mano, promuovendo il digiuno di un pasto per tre giorni consecutivi, come forma di protesta e invitando i frequentatori delle piattaforme più utilizzate di social media a fare lo stesso. Così è nato un florilegio di hashtag #fastactionforyemen che utilizzano il doppio significato del vocabolo inglese fast (fast, fasting = digiuno, digiunare; acting fast = agire velocemente, fare presto) per puntare l’attenzione – come dice lo stesso Hamza – verso la crisi umanitaria in Yemen «per fermare la fame in Yemen, la peggiore carestia dell’ultimo secolo».

La campagna di Almasmari è stata abbracciata anche da altre associazioni (Codepink) e individui che stanno sottraendo un piatto al giorno alla loro dieta usuale, lo fotografano e lo condividono in pubblico sui social. L’azione è una goccia nel mare, là dove milioni di yemeniti sono in attesa di aiuti umanitari e sono a rischio di morte per malnutrizione, soprattutto se sono bambini. Ma tutti coloro che aderiscono alla campagna stanno chiamando in causa – taggandole – le figure chiave della politica locale e internazionale che potrebbero risolvere il conflitto: il ministro della Difesa saudita, Abu Dhabi Mohammed bin Zayed Al Nahyan; il ministro degli Esteri saudita, Adel bin Ahmad al-Jubayr; il portavoce degli Houthi, Mohammed Abdul Salam e, per l’Italia, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Al momento la campagna ha raggiunto gli 850 mila firmatari della petizione internazionale change.org/yemen che chiede la cessazione delle ostilità nel Paese. Nel suo video il piccolo Hamza si rivolge con emozione agli utenti delle piattaforme: «Ci pensate che ogni dieci minuti un bambino come me in Yemen muore di fame? Ieri passeggiando per le strade ho visto dei bambini che mangiavano dalla spazzatura perché erano affamati». La petizione su Change.org, dalla quale è stata lanciata l’iniziativa, raccoglie le firme di cittadini in Italia, Turchia, Francia, Germania e Regno Unito. E su questa nuova iniziativa, che include tweet-bombing, ci sperano in tanti: durante i colloqui di Stoccolma i primi timidi passi di pace sono stati fatti anche grazie (e con) gli osservatori attivisti e yemeniti di diverse rappresentanze della società civile presenti in loco. Ci si chiede perché non ci si possa riprovare, nonostante la politica dei Paesi vicini (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran) sia restia a mettere fine a questa guerra che in cinque anni ha fatto oltre 200mila morti.


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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