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La ricostruzione in Siria, per pochi privilegiati

Fulvio Scaglione
13 settembre 2019
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Mentre non si arrestano le violenze nella regione di Idlib, sembra impossibile reperire abbastanza risorse per la ricostruzione nel resto del Paese riconquistato da Assad e alleati. Che rischiano di perdere la pace.


Mentre a Idlib, nel nord-ovest della Siria, si continua a combattere, Bashar al-Assad pare volersi tuffare nel paradosso che le potenze occidentali conoscono bene: vincere la guerra e perdere la pace. La resistenza (inattesa, almeno in questa misura) dell’esercito siriano e, soprattutto, l’intervento della Russia e dell’Iran hanno rovesciato i piani dell’Isis, del Fronte al-Nusra, delle altre formazioni islamiste e dei loro finanziatori e sostenitori esteri. Pare anche evidente, però che Assad e i suoi stiano ripetendo gli errori che, dalla successione ad Hafez al-Assad in poi, hanno costruito le condizioni per l’esplosione del 2011.

Parliamo della ricostruzione. Una specie di mission impossible per la Siria e i suoi alleati. Basta un dato per capirlo. All’inizio del 2019 la somma necessaria per rimettere in piedi il Paese era stimata tra i 250 e i 400 miliardi di dollari Usa, mentre l’intero bilancio statale della Siria per il 2018 non arrivava a 9 miliardi di dollari. Ci vorrebbero aiuti e investimenti dall’estero. Che arriveranno in minima parte (forse) dalla Russia e per nulla dai Paesi occidentali, che molto hanno fatto per cacciare Assad e certo ora non si fidano di lui. Come disse Ursula von der Leyen quando non era ancora presidente della Commissione europea ma «solo» ministro della Difesa della Germania: «Ci saranno investimenti in Siria solo quando sarà avviato un soddisfacente processo politico che coinvolga tutte le parti».

Nel frattempo, in Siria ci sono 12 milioni di persone bisognose di assistenza, e nei Paesi confinanti 5 milioni di rifugiati siriani. Mentre il 90 per cento della popolazione siriana vive in condizioni di povertà.

I bisogni sono chiari. A fronte di tutto questo, il Governo sembra voler ripetere la politica di investimenti per pochi che segnò gli anni dal 2000 al 2010 e creò le condizioni economiche e sociali (polarizzazione della società tra ricchi e poveri, aumento del costo della vita, urbanizzazione forzata e abbandono delle campagne) per la rivolta del 2011. Il Decreto n. 10, approvato l’anno scorso, impone a chi ha lasciato la Siria di tornare in patria entro un anno per reclamare i diritti di proprietà sugli immobili e i terreni che ha lasciato dietro di sé. Molti di coloro che in questi otto anni si sono sistemati all’estero, o che non possono (perché hanno combattuto Assad) o non vogliono rientrare, perdono i propri beni, sequestrati dallo Stato.

Nei grandi centri siriani, dunque, sono state costituite compagnie private a cui è affidato il compito di ricostruire negli spazi così acquisiti. La Cham Holding Company nell’area urbana della capitale, società simili nei governatorati di Aleppo, Homs, di nuovo Damasco. Si tratta di capitali e imprenditori vicini alla cerchia presidenziale, chiamati a «collaborare» con amministrazioni nominate dal presidente e a lui fedeli.

E questo è il primo punto. Il secondo è che i progetti finora presentati sono riservati ai pochi che hanno ancora denaro o che, durante la guerra, hanno trovato il modo di accumularne. La Cham Holding Company vuole costruire Marota City, un’area residenziale con prezzi a metro quadrato irreali per la popolazione della Siria di oggi. E a Homs si discute di un progetto edilizio che riprende quasi alla lettera un piano già avanzato nel 2017, per quartieri borghesi da costruire in luogo di vecchi quartieri popolari.

Se questi esempi diventeranno strategia, Assad costruirà con le proprie mani le condizioni per una nuova rivolta. Quella del 2011 aveva ragioni profonde. La speculazione occidentale, il terrorismo finanziato dalle petromonarchie del Golfo Persico e la repressione le hanno bruciate, non cancellate.

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