Contro gli stereotipi. L'influencer saudita Amy Roko, molto seguita su Instagram, conduce una personale battaglia per la liberazione dagli stereotipi che avviluppano le donne nel suo Paese.
«La tempesta velata» potrebbe essere il suo soprannome più giusto, ma lei si fa chiamare Amy Roko (il suo nome all’anagrafe nessuno lo sa). È una star da 1,3 milioni di follower su Instagram, da dove prende in giro le restrizioni imposte alle donne nel regno saudita e distrugge gli stereotipi correnti – da Occidente a Oriente – secondo cui le donne totalmente velate, cioè in niqab – sarebbero inevitabilmente «modeste», un aggettivo che in Occidente equivale a «dimesse» o anche a «sottomesse».
Amy Roko, che indossa il niqab nella sua vita quotidiana (il che la rende un personaggio senza volto), ha causato sui social media arabi una tempesta perfetta, apparendo come modella in un servizio fotografico di Getty Images su una rivista glamour, dove indossa un niqab prezioso, di alta moda. Le modelle ritratte nel servizio posano appoggiate a un’auto d’epoca, chiara allusione alla revoca del divieto delle autorità saudite alle donne al volante.
Su questo tema, Amy Roko non si è nascosta dietro un dito nel passato. Prima che il divieto di guida fosse revocato, Roko aveva apertamente criticato le restrizioni imposte alle donne nel regno. In una delle sue clip su Instagram, si fa riprendere mentre cavalca uno skateboard con i tacchi alti lungo le strade di Riyadh, scherzando sul fatto che «le donne hanno trovato modi di trasporto alternativi». Intervistata da Al Jazeera plus, nel 2015, si era dichiarata «favorevole al 100 per cento» alle attiviste saudite che contestavano il divieto di guida nel Paese. E aveva aggiunto: «La mia vita sarebbe molto più semplice se potessi guidare per andare al college, in ospedale, in libreria. Perché dipendere da terzi mi sta innervosendo. Quindi, sono totalmente a favore di qualsiasi iniziativa che dia potere alle donne».
Dall’auto agli abiti, adesso Roko allunga la lista dei desideri. Nella didascalia del magazine, la sua filosofia viene riassunta così: «Ho detto a tutti che sarò una modella. La realizzazione dei miei desideri è partita adesso». Per dimostrare che non sta scherzando, Roko ha scelto di utilizzare l’ironia per ribaltare gli stereotipi sulle donne saudite, in particolare su coloro che scelgono di indossare il velo integrale.
«A causa dell’immagine stereotipata che viene associata alle donne in niqab, che per i più sarebbero timide, spaventate, fragili, e che dovrebbero sempre parlare a voce bassa, mi son decisa a mostrare che l’abito non fa il monaco. Perché io sono l’opposto di ciò che una niqabi dovrebbe essere. Questo mio atteggiamento ha infastidito molte persone e molte donne. Ma ne ha attratto anche molte altre».
Come si può intuire, Roko, però, non ha intenzione di togliersi il niqab. Anzi, per promuovere la causa di una maggiore diversità nel mondo della moda, sembra che stia insistendo per promuovere una rappresentanza di modelle niqabi come lei sulle passerelle della modest fashion orientale, per – a suo dire – dare più potere a ragazze e donne in tutto il mondo.
A sostegno della sua visione delle cose, Roko dice: «Vedo le donne come esseri potenti perché lo sono. Non odio gli uomini, ma sto cercando di fare in modo che la mia voce raggiunga tutte queste ragazzine all’oscuro delle infinite possibilità che potrebbero avere». Al di là dell’attivismo di Roko per lo sdoganamento del niqab in passerella, bisognerà vedere cosa ne diranno (e ne faranno) gli stilisti e le aziende di moda, partendo da Emirati e Turchia, i primi due Paesi dove questa proposta potrà sembrare culturalmente più accettabile.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).
Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).