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Una città del Neolitico alle porte di Gerusalemme

Christophe Lafontaine
18 luglio 2019
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La scoperta di un villaggio di 9 mila anni fa a Motza dischiude nuove prospettive agli studiosi. Testimonia la presenza nella regione di una rilevante civiltà neolitica, fino ad oggi ignorata.


«È la prima volta che in Israele scopriamo un sito di questa portata risalente al periodo neolitico», spiegano Hamoudi Khalaily e Jacob Vardi, direttori degli scavi di Motza, situati 5 chilometri a nord-ovest di Gerusalemme. Con un’area di circa 4.000 metri quadrati, questo sarebbe anche, secondo loro, uno dei siti più estesi della regione se non del pianeta. Lavorando per conto dell’Autorità israeliana per le antichità (Aia), i due archeologi hanno espresso la loro soddisfazione in un comunicato diffuso nei giorni scorsi dall’istituzione pubblica, nel quale si sottolinea che «in questo luogo vivevano almeno due o tremila residenti, un ordine di grandezza paragonabile a quello di una città dei nostri giorni!». L’insediamento umano risale a 9 mila anni fa, siamo nell’Età della pietra, e per gli standard dell’epoca possiamo parlare di una vera e propria metropoli.

Gli scavi hanno portato alla luce grandi edifici residenziali con, talvolta, pavimenti in gesso, strutture pubbliche, spazi dedicati al culto e sepolture. Tra gli edifici furono creati dei vialetti, testimonianza di un livello di pianificazione architettonica e urbanistica avanzata e ariosa. Secondo quanto riporta il quotidiano Haaretz, le case di Motza all’epoca erano «costruite con mattoni di terra che si sono disintegrati da molto tempo, ma le fondamenta degli edifici in grandi mattoni di pietra sono ancora visibili».

La scoperta del sito è avvenuta in occasione di importanti lavori stradali. Per questo il progetto è stato avviato e finanziato dalla Società israeliana delle infrastrutture e dei trasporti nazionali – Netivei Israel.

Come un big bang

Secondo i ricercatori israeliani, la scoperta del sito di Motza sta già riscontrando «notevole interesse nel mondo scientifico», perché induce a cambiare radicalmente le conoscenze fin qui acquisite sul Neolitico nella regione. «Finora – dicono gli archeologi – si credeva che la Giudea fosse vuota e che siti di queste dimensioni esistessero solo sull’altra sponda del Giordano o a nord del Levante (grosso modo l’attuale Siria – ndr). Al contrario, piuttosto di un’area disabitata abbiamo trovato un sito complesso, che poteva far affidamento su vari mezzi di sostentamento economico. E il tutto si trovava poche decine di centimetri sotto il suolo». Per dare un’idea della novità, Jacob Vardi parla addirittura di una sorta di big bang per la conoscenza del Neolitico in Medio Oriente.

Di per sé, è logico che questo territorio fosse popolato, dal momento che la valle in cui si trova – attraversata dall’antica strada che portava dalla regione della Shefela (Israele centro-meridionale) a Gerusalemme – è un ambiente fertile lungo le rive del fiume Sorek e garantisce un facile accesso a sorgenti d’acqua dolce. «Queste condizioni ottimali sono una delle ragioni principali di un insediamento umano a lungo termine in questo sito, dal periodo epipaleolitico (circa 20.000 anni fa) ai giorni nostri», spiega il comunicato stampa dell’istituzione archeologica.

Migliaia di utensili e oggetti

Il villaggio è caratteristico del periodo neolitico, era durante la quale avvennero profondi mutamenti tecnici (ad esempio, la comparsa di utensili in pietra levigata), ma anche mutamenti sociali, con l’emergere di un modello di sussistenza non più basato sulla caccia e sulla raccolta, bensì sull’addomesticamento di piante e animali, innovazione che implica generalmente uno stile di vita sedentario e non più migratorio.

Come dimostrano molti reperti, gli abitanti preistorici del sito di Motza mantennero relazioni commerciali e culturali con numerose popolazioni dell’Anatolia, dell’Egitto e della Siria.

I ricercatori hanno riportato alla luce luoghi di sepoltura, che si trovavano «dentro e tra le case», nei quali erano collocate varie offerte funerarie (strumenti utili o preziosi), che avrebbero dovuto servire ai morti nell’oltretomba. È il caso di oggetti di ossidiana (vetro vulcanico nero) proveniente dall’Anatolia e di conchiglie dal Mediterraneo e dal Mar Rosso. Gli archeologi hanno anche rinvenuto braccialetti in pietra calcarea di vario stile, fatti a mano e probabilmente indossati da bambini, considerata le loro dimensioni. Sono stati trovati altri braccialetti in madreperla, medaglioni fatti con lo stesso materiale e monili d’alabastro lunghi 2,5 centimetri (e provenienti, probabilmente, dal vicino antico Egitto). Il tesoro comprende anche una ciotola in serpentino (minerale della Siria settentrionale) e statuette d’argilla antropomorfe e zoomorfa, una delle quali ha le dimensioni di un dito e rappresenta un bue (animale certamente addomesticato già a quell’epoca) mentre un’altra rappresenta un volto umano.

I resti del villaggio indicano anche la presenza di magazzini contenenti una grande quantità di semi di legumi (soprattutto lenticchie) giunte fino a noi in un buono stato di conservazione. «Questa scoperta prova il ricorso a pratiche di agricoltura intensiva», afferma gli esperti dell’Autorità israeliana per le antichità.

Inoltre, il sito trabocca di utensili in selce: migliaia di punte di freccia utilizzate per la caccia e forse in combattimenti, asce per abbattere alberi, falci e lame anch’esse in ossidiana. Le ossa di animali domestici (essenzialmente capre) rinvenute sul posto evidenziano tuttavia che la popolazione locale si era sempre più specializzata nell’allevamento, a scapito della caccia.

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