Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Nella città di Laodice

Monica Borsari *
16 luglio 2019
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Nella città di Laodice
Le imponenti rovine archeologiche di Laodicea al Lico. Nella foto: il cosiddetto tempio A, identificato con il Sebasteion (luogo di culto imperiale). (foto G. Caffulli)

La Laodicea biblica è individuata sulle sponde del fiume Lico, un affluente del Meandro, nell’Anatolia sud-occidentale. La città deve il nome alla moglie del sovrano seleucide Antioco II. Qui sorse un’antichissima comunità cristiana citata nell’Apocalisse.


La Bibbia riporta il toponimo greco Laodicea cinque volte: tre nella Lettera ai Colossesi, due nel libro dell’Apocalisse. È soprattutto a quest’ultimo testo che la città lega la sua fama. Ultima Chiesa nel settenario delle lettere, è la comunità a cui il Risorto rivolge parole vibranti di durezza inaudita: «Tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,15-16). Un simile atto di accusa lascia attoniti, pensando a chi lo pronuncia, e al contempo suscita curiosità. Curiosità che nel corso dei secoli ha attratto in situ numerosi pellegrini, avventurieri, studiosi e viaggiatori. Incrociando documento e monumento – le fonti letterarie con quanto ha restituito l’archeologia – è possibile ricostruire la storia della città.

In età antica molti centri portarono il nome di Laodicea. Soltanto durante il regno seleucide (312-63 a.C.) se ne contano almeno sette. La Laodicea biblica è individuata dal toponimo latino Laodicea ad Lycum, ossia sul fiume Lico – in turco Çürüksu, letteralmente «acqua putrida» – nell’Anatolia sudoccidentale dell’attuale Turchia. Il nome della città risale alla regina Laodice, prima moglie del re seleucide Antioco II che, stando a quanto tramandano le fonti, ricevette in sogno un oracolo del dio Apollo, che comanda di fondare la città. Cosa che avvenne tra il 261 e il 253 a.C.

Nella geografia antica, Laodicea si trovava al confine di Frigia, Caria e Pisidia. Se dal punto di vista viario Laodicea era in una posizione di forza, perché alla confluenza di strade che mettevano in collegamento l’altopiano anatolico e il bacino egeo, la questione idrica era invece un punto problematico.

L’acqua fu una delle massime preoccupazioni dei laodicesi, a causa della totale assenza di sorgenti all’interno della città. In epoca ellenistica, romana e all’inizio di quella bizantina, l’acqua veniva portata dalle pendici del Salbakos, a circa 18 chilometri di distanza. Dalla sorgente di Başpınar, era immagazzinata in bacini e trasportata a Laodicea, ai due centri di raccolta e distribuzione dell’acqua all’interno della città, attraverso un sistema che incorporava una rete di canali aperti, acquedotti e tubature. Un’altra risorsa della regione poi, dovuta alla sua natura tettonica, erano le diciassette sorgenti calde di Hierapolis, da cui scaturivano acque a una temperatura tra i trentacinque e i novantacinque gradi, dunque particolarmente adatte per l’istallazione di bagni termali.

Anche Laodicea vi attingeva, attraverso un sistema di tubi e condotti, sebbene l’acqua – ricca di idrocarbonato, calcio, biossido di carbonio, ferro e zolfo – si intiepidisse durante il percorso, fosse maleodorante e sgradevole al gusto. Ciononostante, le proprietà terapeutiche di tali acque sono note, prova ne è il fatto che nel corso dei secoli sono state ampiamente sfruttate.

A Laodicea l’acqua aveva un’importanza vitale anche per motivi economici: per il mantenimento della fiorente produzione agricola – soprattutto grano, frutta, ortaggi, olio e vino, mentre oggi il cotone la fa da padrone – e l’allevamento degli armenti, specialmente ovini. La sua alcalinità, inoltre, la rendeva ideale per il candeggio dei tessuti e il trattamento delle pelli.

È proprio la lavorazione della lana a costituire la base della fiorente industria tessile della valle del Lico. La flora locale forniva coloranti naturali per tingere i tessuti e incrementare così il ricco mercato del distretto, comprendente anche i territori di Colosse e Hierapolis. Plinio il Vecchio affermava che la lana era tinta di rosso o di viola mediante la Rubia tinctorum, una pianta erbacea perenne dalle cui radici si estrae l’alizarina, una sostanza colorante utilizzata nella preparazione di una lacca di colore rosso violetto. La tintura ottenuta dalla robbia era simile alla porpora, ma molto meno costosa.

Laodicea esportava i suoi prodotti lanieri in tutto il bacino del Mediterraneo, Roma inclusa, con notevole successo. Famosa era una particolare specie di pecora, dal caratteristico vello nero corvino, che forniva una lana alquanto soffice, lucente e raffinata, come attestano sia Strabone sia Vitruvio. La produzione tessile laodicese vantava un piccolo mantello, fissato sulle spalle con delle fibule, conosciuto come laodicia o laodikene e l’economica trimita, un tipo di tunica che diede a Laodicea una certa fama, tanto che negli elenchi del concilio di Calcedonia del 451 la città fu ricordata con l’appellativo di «Trimitaria».

Un prodotto d’eccellenza della regione poi, era uno speciale collirio. La vallata del Lico era infatti un importante centro di scuole mediche e di laboratori farmaceutici, specializzati in oftalmologia. Non è dunque un caso che l’autore del libro dell’Apocalisse abbia fatto ricorso all’immagine del collirio come terzo e ultimo rimedio consigliato ai laodicesi dal Risorto per tornare a vedere.

Che cosa rimane oggi dell’opulenta Laodicea che, secondo Tacito, in seguito al tremendo terremoto dell’anno 60, rifiutò orgogliosamente i finanziamenti offerti dal Senato romano e volle rialzarsi da sola?

Il sito continua a restituire meraviglie che stupiscono gli studiosi come i semplici turisti. Dal 2003 la locale Università di Pamukkale è titolare della missione. Gli scavi stanno riportando in superficie il volto di un centro florido che si estendeva su un’area complessiva di cinque chilometri quadrati e che può vantare tra i suoi resti il più grande stadio antico dell’Anatolia, due teatri, quattro complessi termali, quattro agorà, sette ninfei, due porte monumentali, il bouleuterion, templi, chiese e ampie strade.

Il rigoroso rispetto dell’impianto ippodameo e i perimetri regolari delle strutture, arricchite da strade maestose e da traverse laterali, testimoniano una pianificazione urbanistica eccellente. Il decumano (oggi Via Siria) si allunga verso ovest per 904 metri ed è ampio 7,30 metri; mentre il cardo (Via dello Stadio) si estende verso sud per 288 metri. A nord della Via Siria, nel colonnato basso del cosiddetto ninfeo A, è stata rinvenuta l’incisione di una menorah, sormontata da una croce poggiante su un globo. È il primo ritrovamento di questo tipo in Asia Minore. Sembra che la croce sia stata aggiunta in un secondo momento. Cosa questo significhi è difficile dirlo con certezza. Tre le ipotesi avanzate: la prima, a Laodicea ebrei e cristiani convivevano pacificamente; la seconda, l’iscrizione attesta la presenza di giudeo-cristiani; la terza, è la prova che il cristianesimo aveva surclassato l’ebraismo dall’età costantiniana in poi.

La posizione strategica, un distretto economico esuberante, i commerci fiorenti e il fatto che i romani avessero scelto Laodicea come sede amministrativa dell’impero avevano fatto della città un polo di attrazione. Uno dei monumenti più noti di Laodicea è lo stadio (285×70 metri), collocato a sud della città in direzione nord-ovest sud-est. La sua capacità ricettiva è stata stimata fino a trentamila spettatori. Le sue dimensioni, insieme a quelle dei due teatri – a nord il «teatro maggiore» poteva contenere dodicimila persone e il «teatro ovest» ottomila – sono indicative del numero della popolazione e dell’importanza che a Laodicea avevano la cultura, le arti e lo sport.

Tra gli edifici religiosi sono annoverati il cosiddetto «tempio A», dedicato ad Apollo, Artemide e al culto imperiale, riconvertito poi in archivio dopo la svolta costantiniana, e almeno sei chiese risalenti al V-VI secolo, tra cui spicca la basilica di Laodicea, che presenta ancora il nartece, il battistero, il complesso episcopale (residenza del vescovo, archivi, cucina) e una serie di dieci absidi lungo le fiancate laterali che conferiscono all’edificio uno stile piuttosto singolare.

Purtroppo, la città fu ripetutamente funestata da violenti terremoti che, nel tempo, ne decretarono la fine, ben prima della sua completa distruzione ad opera dei mongoli nel 1402.

(* Amici del Medio Oriente Onlus www.amo-fme.org)

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