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La Siria e i suoi profughi, tutti i nervi scoperti

Fulvio Scaglione
8 luglio 2019
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A Damasco il governo comincia a immaginare la ricostruzione del Paese, messo in ginocchio da 8 anni di guerra. Impresa impossibile senza il rientro di molti professionisti che ora sono all'estero come profughi. Gli appelli del presidente Assad.


Tra i tanti terreni (la politica, il terrorismo, la diplomazia, l’economia, la religione…) su cui dal 2011 è stata ed è combattuta la guerra di Siria, diventa sempre più importante, ora che il progetto arabo-occidentale di regime change è fallito, quello dei rifugiati. Ci sono almeno 5 milioni di siriani profughi in Giordania, Turchia e Libano, un’enormità rispetto alla popolazione totale del Paese, che nel 2011 non raggiungeva i 21 milioni di persone. È una questione di peso numerico ma anche di «qualità». Spesso queste persone sono professionisti qualificati, commercianti, tecnici, operai specializzati. In altre parole, una forza che potrebbe essere decisiva ora che Bashar al-Assad sta cercando di far partire la ricostruzione del tessuto economico e sociale lacerato da otto anni di guerra senza tregua.

Non a caso il presidente lancia continui appelli affinché i siriani che sono scappati appena oltre confine rientrino in patria. Appelli che celano a malapena la consapevolezza che sarà quasi impossibili convincere a tornare i siriani che hanno raggiunto l’Europa o l’America e che da anni, ormai, hanno trasferito la famiglia e si sono ambientati in quei mondi nuovi.

Assad ripete che il ritorno dei siriani viene rallentato ad arte da coloro che hanno interessi politici ed economici nell’emergenza umanitaria. «Un numero significativo di profughi negli ultimi anni è una delle fonti di corruzione a beneficio dei funzionari dei Paesi che sostengono il terrorismo e dei funzionari delle organizzazioni che avrebbero dovuto inviare gli aiuti umanitari che sono finiti nelle mani dei terroristi», ecco una delle sue argomentazioni preferite.

Il presidente sa di toccare un nervo sensibile, soprattutto per quanto riguarda Giordania e Libano (meno la Turchia, che per gestire i profughi siriani riceve un sontuoso compenso dall’Unione Europea). In Giordania ci sono 750 mila rifugiati siriani, 89 ogni mille abitanti. E in Libano, su una popolazione di 4 milioni di persone, ce n’è un milione e mezzo. L’uno e l’altro Paese farebbero volentieri a meno di un simile fardello, che mette a rischio non solo l’equilibrio economico, ma anche l’assetto generale della società. Soprattutto in Libano, dove la componente maggioritaria della popolazione autoctona è musulmana sciita e quindi ha visto con pochissima simpatia l’arrivo in massa di musulmani sunniti dalla Siria.

Quel nervo sensibile non manca di reagire. Qualche giorno fa le autorità libanesi hanno emesso un’ordinanza affinché fossero demolite tutte le «abitazioni» in muratura costruite dai profughi siriani, essendo permessi solo i rifugi in plastica e legno. Il senso del provvedimento è chiaro: i siriani non devono pensare di potersi stabilire in Libano; la loro permanenza è e deve restare provvisoria. Meglio ancora, poi, se dovessero decidere di tornare a casa propria.

Il provvedimento è stato subito denunciato dalle ong, per esempio da Human Rights Watch. L’organizzazione l’ha definito «una pressione illecita sui profughi affinché se ne vadano dal Libano». E ha aggiunto, attraverso le dichiarazioni di Bill Frelick, direttore per i Diritti dei rifugiati, che «molti di loro hanno ragioni concrete per temere un rimpatrio, tra cui gli arresti, le torture e i maltrattamenti delle forze di sicurezza siriane».

Chi conosce la realtà siriana di questi anni sa che non si può fare di ogni erba un fascio. Equiparare tout court i profughi a degli esuli politici è una forzatura che, paradossalmente, finisce per legittimare le parole di Assad, che considera complici del terrorismo tutti coloro che si oppongono al loro ritorno. Molti di quelli che sono scappati non stavano né col regime né con gli insorti, ma cercavano di salvarsi la vita. E per molti l’Isis e Al Nusra erano un incubo almeno quanto i servizi segreti di Damasco.

I problemi decisivi sono altri. Per esempio la leva militare. Tantissimi giovani uomini siriani sono espatriati per non essere arruolati nell’esercito. Finché la guerra sarà in atto la coscrizione sarà obbligatoria e chiunque sia in età da servizio militare dovrà temere di ritrovarsi al fronte. E poi ci sono le sanzioni. Usa ed Europa bloccano con l’embargo l’economia siriana e rendono assai difficile la ricostruzione. Altro ostacolo alla politica assadiana dei ritorni.

Comunque sia, da un punto di vista politico è chiara una cosa. Se Assad riuscirà a far tornare un numero congruo di profughi, avrà davvero vinto la guerra. Se milioni di siriani preferiranno restare nei campi di raccolta del Libano, della Giordania e della Turchia, la sua vittoria militare sarà comunque più che dimezzata. Aspettiamoci dunque su questo fronte battaglie ancora molto aspre.


 

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Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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