(g.s.) – Nei giorni scorsi in Israele sono nuovamente esplose, anche in modo violento, alcune delle contraddizioni ancora irrisolte in seno alla componente ebraica. Tutto è cominciato con l’assassinio di Solomon Teka – un 19enne israeliano dalla pelle scura, discendente di ebrei etiopi – da parte di un poliziotto fuori servizio che domenica 30 giugno si trovava con la famiglia in un giardinetto pubblico d’un sobborgo di Haifa. L’agente senza nome (i media hanno ricevuto l’ordine di non pubblicare le sue generalità) dice di aver sparato per legittima difesa, a fronte di una minaccia grave e imminente nel corso di una lite tra alcuni giovani che lui aveva cercato di sedare. Testimoni oculari danno però un’altra versione dei fatti: il poliziotto avrebbe mirato da lontano, facendo fuoco pur senza essere in pericolo.
La morte del giovane Solomon ha rinfocolato i risentimenti degli ebrei etiopi, che si sentono discriminati dagli ebrei israeliani di pelle bianca. La polizia, in particolare, è stata accusata di assecondare anche tra i suoi ranghi pregiudizi razzisti. Proteste di piazza, pacifiche o violente, sono state organizzate in varie parti di Israele, soprattutto l’1 e il 2 luglio. La polizia riferisce che 110 dei suoi agenti sono rimasti feriti e 136 manifestanti sono stati arrestati durante le sommosse. Il presidente Reuven Rivlin e il premier Benjamin Netanyahu hanno esortato alla calma e promesso, ancora una volta, che le istanze degli ebrei etiopi troveranno ascolto. Gli animi si sono calmati mercoledì, quando la famiglia Teka ha chiesto a tutti di rispettare i sette giorni di lutto (shiva) che seguono la sepoltura di un congiunto. Cosa accadrà dopo?