Nel reparto maternità dell’ospedale St. Joseph, nella zona araba della città, si lavora per assicurare alle mamme, anche ebree, un’esperienza felice e far sperimentare ai bimbi il calore di un amore accogliente.
Come sottolineava papa Francesco in una catechesi, Dio ha scelto di venire nel mondo non spettacolarmente, come un imperatore o un guerriero, ma come figlio, nascendo da una ragazza di Nazaret. Dio, per farsi umano e sapere dell’umano, ha voluto passare dal grembo di una donna: proprio lì si accende e si compie, per l’umano, qualcosa di insostituibile. Questa consapevolezza, che nella nostra epoca pare rarefarsi, costituisce il roccioso fondamento dell’opera compiuta al St. Joseph Hospital, l’unico ospedale cattolico che sorge nella zona araba di Gerusalemme. Fondato nel 1956 dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, il nosocomio nel 2015 ha inaugurato il reparto maternità (che comprende anche la terapia intensiva neonatale). Qui, insieme ai medici, lavorano 30 ostetriche e una ventina di infermiere palestinesi (cristiane e musulmane) e presta servizio suor Valentina Sala: ostetrica, 42 anni, appartiene alla Congregazione di san Giuseppe dell’Apparizione e risiede a Gerusalemme dal 2013 insieme a quattro consorelle.
La naturalità del parto
Le relazioni tra le persone cristiane e musulmane che lavorano nel reparto sono veramente ottime, afferma suor Valentina: «La diversa appartenenza religiosa non ha mai creato problemi. Ci sosteniamo reciprocamente, condividiamo gioie e preoccupazioni. Siamo tutti accomunati dal desiderio di assicurare alle mamme la migliore assistenza possibile. Sono convinta, e con me lo è l’intero staff, che la pace, in questa terra percorsa da tensioni e violenze, si possa costruire cominciando dall’evento della nascita, un bambino alla volta», osserva. «Lavoriamo uniti affinché il bambino possa sperimentare sin dai primi istanti di vita il calore di un amore accogliente, affinché la nascita possa essere per lui, la mamma e l’intera famiglia un’esperienza felice, piena di pace. Per questo ci impegniamo a preservare il più possibile la naturalità del parto». Ciò significa, ad esempio, che in questo reparto, dove vengono alla luce mediamente 250 bambini al mese, si cerca anzitutto di limitare il ricorso al taglio cesareo (pratica di cui nel mondo non di rado si abusa). Durante il travaglio le partorienti non sono obbligate a restare a letto ma possono muoversi liberamente e decidere in quale posizione partorire. Dopo la nascita il neonato è subito adagiato sul ventre materno e l’allattamento comincia in sala parto; nei giorni successivi alla nascita il bimbo e la mamma trascorrono insieme gran parte del tempo. Dal 2017 al St. Joseph è anche possibile partorire in acqua, una modalità che ha suscitato grande interesse.
Il gemellaggio
Per poter offrire una sempre migliore assistenza e, allo stesso tempo, promuovere legami e scambi significativi dal punto di vista professionale e umano, racconta suor Valentina, il St. Joseph, nel 2016, ha deciso di gemellarsi con l’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo e la diocesi di quella città. «Ogni anno alcuni infermieri e ostetriche del nostro ospedale, grazie all’ospitalità assicurata dalla diocesi, seguono per un mese un corso di alta formazione nella struttura sanitaria bergamasca. E i tutor italiani, a loro volta, trascorrono una decina di giorni qui a Gerusalemme per affiancare il nostro staff nel lavoro quotidiano».
Nulla si antepone alla vita che nasce
Sino al 2017 si rivolgevano al reparto maternità del St. Joseph solo mamme arabe (cristiane e musulmane) residenti a Gerusalemme e nei dintorni e alcune donne palestinesi provenienti dalla Cisgiordania. Successivamente, da quando, grazie al passaparola, si è saputo che viene proposto il parto in acqua e che si cerca di preservare la naturalità del parto, sono giunte anche coppie ebree. Nel 2018 sono state alcune decine e il numero è in costante aumento. Vi sono coppie provenienti dalle colonie, altre dalla zona di Tel Aviv, altre che vivono in città e, incuranti delle critiche, oltrepassano senza esitazione quella linea immaginaria che divide in due Gerusalemme. «Quando giunse la prima coppia ebrea – racconta suor Valentina – il personale reagì bene, solo due ostetriche mi confidarono di sentirsi profondamente a disagio. Nel volgere di qualche mese, però, il loro disagio venne meno. All’inizio affiancai il personale, diventando di fatto – in quanto suora cattolica straniera – una sorta di ponte tra i due mondi. Ben presto smisi. Il personale segue con grande dedizione e competenza le coppie ebree le quali sono sempre entusiaste e grate per l’assistenza ricevuta. I rapporti sono molto buoni. Penso che una donna in travaglio e un bimbo che nasce siano disarmanti: un medico, un’ostetrica, un’infermiera che vivono con passione e autentico senso di responsabilità la loro professione non possono che provare tenerezza per il bimbo e restare coinvolti dalle fatiche della madre: tutto il resto, che pure rimane, passa in secondo piano: nulla si antepone alla vita che si sta aiutando a venire al mondo».
L’assunzione delle ostetriche ebree
Recentemente molte doule ebree (le donne che accompagnano le mamme durante la gravidanza e il parto) hanno chiesto di poter proporre alle mamme che scelgono il St. Joseph alcuni corsi (ad esempio la musicoterapia e l’agopuntura). Suor Valentina sta pensando di farle incontrare con le ostetriche del reparto affinché possano conoscersi e scambiarsi esperienze: «Reputo importante che tra loro nasca anzitutto un legame». Nel frattempo, alcune ostetriche ebree hanno chiesto di essere assunte nel reparto maternità del St. Joseph: «È un fatto sorprendente», dice suor Valentina, che aggiunge: «Sono contenta che questo ospedale si sia guadagnato la fama di realtà sanitaria particolarmente qualificata. L’assunzione è un passo molto delicato; ed è possibile: ne sto parlando con le persone che lavorano nel reparto, desidero che maturi una decisione condivisa. Stiamo percorrendo un cammino, l’orizzonte non muta: la pace, un bambino alla volta».