Nelle periferie degradata del Cairo San Simeone è un'oasi di preghiera meta di pellegrini da tutto il Paese. La vicenda del santo conciatore continua ad essere simbolo della fedeltà al Vangelo.
Nel villaggio di Mansheiyet Nasser, sulle pendici della collina del Moqattam, di fronte alla Cittadella, abitano oggi i più poveri tra gli abitanti del Cairo, gli zabbaliin, i raccoglitori di immondizie, qui trasferiti dal governo a partire dal 1969 per liberare le vie del Cairo dalla loro poco gradita presenza, pensando soprattutto al numero sempre crescente dei turisti. Zubaala in arabo significa «rifiuti, immondizia, spazzatura» e zabbaliin sono coloro che con l’immondizia lavorano e della cernita differenziata dei rifiuti hanno fatto il loro sistema di sopravvivenza. Sono quasi quarantamila: moltissimi di costoro sono cristiani copti, originari dell’Alto Egitto, inurbatisi al Cairo nella speranza di far fortuna ma spesso anche fuggiti da situazioni di conflitto religioso, come per tanta gente di Asyut; pochi sono invece i musulmani, circa il dieci per cento, in genere mercanti, che qui hanno colto l’occasione di impiantare un proficuo commercio. Chi ha avuto la possibilità di percorrere le vie e i vicoli del villaggio, dove non solo le automobili e i camioncini si muovono con estrema difficoltà, ma anche muoversi a piedi è poco agevole, ha avuto modo di constatare di trovarsi in un contesto piuttosto «raccapricciante», con scene di vera miseria; è un quartiere-di scarica, una baraccopoli abitata da una eterogenea comunità di uomini, maiali, topi e pidocchi: un’immagine sconvolgente. Raccolti in ogni parte della città, i rifiuti del Cairo vengono portati direttamente nel quartiere, anzi nelle case stesse degli zabbaliin; dappertutto sono ammassati giganteschi sacchi di nylon, colmi di ferraglia, alluminio, plastica, carta, cartone, stracci; tutto separato con cura e meticolosità e pronto per essere rivenduto ai commercianti.
Attraverso gli usci semi-aperti delle case è possibile vedere gente riunita attorno ai rifiuti – molti sono i bambini -, intenti alla cernita e alla separazione, a mano o con l’aiuto di piccoli macchinari messi a loro disposizione da alcune aziende. Alcuni di questi zabbaliin sono diventati benestanti, moltissimi hanno almeno trovato un modo per «tirare a campare», tanti altri sono rimasti nella miseria. Non possono tuttavia essere taciuti i gravissimi problemi legati alle carenti condizioni igieniche del villaggio, dove gli abitanti sono in strettissimo contatto con germi e gas tossici che si sviluppano dalla fermentazione dei rifiuti organici e coi materiali tossici utilizzati per pulire le plastiche, ecc. In aiuto della popolazione diversi progetti sono stati attuati o sono in fase di realizzazione. Suor Emanuelle, religiosa francese della congregazione di Sion nota appunto per il suo impegno in queste baraccopoli, cominciò anni fa ad interessarsi di loro e riuscì a coinvolgere tante persone; ora c’è una scuola, dei dispensari, un piccolo ospedale, una cooperativa; da anni vi operano le suore di Madre Teresa di Calcutta, che qui hanno aperto una loro casa. È stata istituita persino una scuola per insegnare ai ragazzi l’arte del riciclaggio: un modo per evitare loro di passare le giornate sniffando colla, la droga dei poveri.
Eppure, in questo ambiente così degradato è presente una realtà che difficilmente si riuscirebbe ad immaginare: un grandioso complesso di chiese e cappelle, scavate nella roccia della montagna: ognuna è dedicata a un diverso santo, ma sono note collettivamente come il Monastero di san Simone il Conciatore. Oltre all’ovvia funzione sociale che il monastero svolge (non dimentichiamo che la popolazione è qui quasi completamente copta), esso costituisce una vera meraviglia architettonica.
Una prima chiesa, dedicata a san Simone, fu costruita nel 1974, visitata nel 1977 dall’attuale patriarca Shenuda III. Per far fronte al costante aumento del numero dei fedeli, si decise di costruire una nuova chiesa. Nel 1986 fu allargata una grotta naturale, che fu successivamente ampliata fino a diventare una vera e propria cattedrale, con scalinate disposte ad anfiteatro e capace di contenere più di ventimila persone. La chiesa, una delle più grandi del Medio Oriente, è abbellita da splendidi rilievi a carattere biblico scavati nella roccia. Inaugurata il 27 novembre 1993, ricorrenza di san Simone, essa è dedicata alla Vergine e a san Simone e custodisce parte delle reliquie del santo, venute alla luce nel 1991 durante i lavori di restauro nella chiesa della Santa Vergine di Babilonia al-Daraj, nel Cairo Vecchio. Altre chiese rupestri arricchiscono il monastero, come quelle di san Bula (Paolo di Tebe, il primo eremita) e di san Marco (l’evangelista al quale la tradizione fa risalire la prima predicazione del Vangelo in Egitto).
La fama di san Simone è strettamente connessa con la collina del Moqattam. Secondo una leggenda copta, verso la fine del X secolo l’ebreo Yaqob ibn Killis, convertito all’Islam e vizir del califfo fatimide al-Muizz, accusò un giorno i cristiani presso il suo signore di sostenere di poter spostare le montagne con la forza delle loro preghiere. Il califfo ingiunse al patriarca copto Abramo di dimostrare la veridicità di questa affermazione.
Si narra che al termine di tre giorni di digiuno per impetrare da Dio la grazia del miracolo, e dopo molte e intense preghiere, confortate anche dall’apparizione della Vergine, il patriarca e san Simone il Conciatore, al quale Abramo su suggerimento della Vergine stessa si era rivolto, riuscirono a provocare un terremoto: l’altopiano che sovrastava il Cairo si spaccò, le due parti si allontanarono e ne risultò la collina del Moqattam (che in arabo significa appunto «tagliato»). I copti, per i quali il miracolo sarebbe avvenuto il 27 novembre 979, celebrano ancor oggi questo digiuno di tre giorni, subito prima dei 40 giorni del digiuno di Natale.
Mille anni dopo che Simone ebbe compiuto il miracolo di muovere la montagna, è la montagna ad essere stata mossa per lui.