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Hussar, profeta di riconciliazione

Bruno Segre
10 aprile 2006
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Hussar, profeta di riconciliazione
Padre Bruno Hussar

Dieci anni fa, l'8 febbraio 1996, moriva padre Bruno, frate domenicano di origine ebrea e fondatore della comunità di Nevé Shalom. Il profilo di un uomo che è stato protagonista di un'importante stagione ecclesiale.


Con la morte di padre Bruno Hussar, avvenuta all’età di 85 anni l’8 febbraio 1996, scomparve a Gerusalemme – come scrisse allora il cardinale Carlo Maria Martini –  un «profeta di riconciliazione e pace in Israele», che aveva «realizzato il sogno di unire ebrei, cristiani e musulmani in una vita intessuta di preghiera e silenzio».

Coinvolto per decenni, quale diretto e partecipe testimone, nel dramma del conflitto che da oltre mezzo secolo sta facendo del Vicino Oriente una delle aree più «calde» e a rischio del mondo, Hussar si era speso senza risparmio e con acuta intelligenza per modificare quella situazione: lavorando a far cadere le barriere della paura, a sgretolare gli stereotipi, a promuovere la conoscenza dell’altro e a costruire, entro una realtà solcata da dolorosissime lacerazioni, vincoli di rispetto, di collaborazione e, ove possibile, di amicizia.

Nato in Egitto nel 1911 da padre ungherese e madre francese, entrambi ebrei non praticanti, frequenta al Cairo il liceo italiano. All’età di 18 anni si trasferisce in Francia, conseguendo a Parigi la laurea in ingegneria. Nell’autobiografia Quando la nube si alzava…, Hussar afferma che, privo d’ogni educazione religiosa ma assetato d’assoluto, riceve «il battesimo il 22 dicembre 1935, all’età di 24 anni». E subito sottolinea: «Entrai immediatamente in un universo in cui tutto era sacro, senza sapere ancora fino a che punto la mia identità ebraica vi si esprimeva. Non vivevo che per Dio, con Dio, in Dio».

Nel 1937 ottiene la cittadinanza francese. Durante gli anni della guerra e dell’occupazione tedesca  – Hussar, secondo le leggi naziste, è a tutti gli effetti un ebreo –  affronta «l’amara esperienza dell’antisemitismo» scoprendo che «la mia fede cristiana non mi di­ spensava dal condividere la sorte dei miei fratelli ebrei».

L’ingresso nell’ordine dei domenicani (dicembre 1945) e la successiva ordinazione sacerdotale (luglio 1950) segnano nella sua vita una svolta decisiva. Un giorno il padre provinciale, Albert-Marie Avril, «mi confidò il suo desiderio di aprire nella parte ebraica di Gerusalemme un centro di studi sull’ebraismo, analogo al Centro domenicano di studi i­ slamici del Cairo. Aveva pensato a me, ebreo di nascita, per questa fondazione, e mi chiedeva di riflettervi. Capii più tardi fino a che punto l’idea del padre Avril, tutt’altro che condivisa da tutti i padri più autorevoli della Provincia, fosse profetica e importante, non solo per l’Ordine ma per tutta la Chiesa». Da quest’idea nascerà in breve tempo, a Gerusalemme, la Casa di Sant’Isaia nella quale a Hussar andranno  affiancandosi il padre Marcel Dubois (in seguito professore e addirittura decano della facoltà di Filosofia dell’Università ebraica di Gerusalemme) e il padre Jacques Fontaine.

Hussar si imbarca a Marsiglia per Israele nel giugno 1953, poco più che quarantenne.   Durante i primi tempi del suo soggiorno nel Paese, cerca di formarsi un’opinione diretta e personale circa i destini del popolo ebraico. «Mi chiedevo quale poteva essere il significato del suo ritorno alla terra dei padri, e riflettevo su questo straordinario avvenimento alla luce delle Scritture.  Provavo un senso di disagio ascoltando o leggendo quanto pensavano in merito i miei amici cristiani. […] Mi pareva che modestia e pudore richiedessero di rispettare il velo con cui Dio aveva voluto avvolgere» il rapporto tra le Scritture e gli avvenimenti relativi allo Stato d’Israele.

Più tardi, nel ripensare ai primi sei anni trascorsi nel Paese, Hussar ha «l’impressione di avere camminato sulle uova cercando di non romperle: uova rabbiniche e uova ecclesiastiche…». Negli ambienti cristiani «mi guardavo bene dallo svelare le mie origini ebraiche. Con un clero apertamente ostile allo Stato d’Israele, nonché, il più delle volte, chiaramente antisemita, avrei rischiato di perdere ogni autorità per chiarire le cose». Una volta, mentre si trovava da un parroco greco-cattolico e tentava di moderare ed equilibrare certi suoi apprezzamenti oltranzisti contro gli «ebrei», si sentì rispondere: «Ma lei non può negare che si tratta di un popolo maledetto da Dio!». Parole dure all’orecchio d’un uomo nel cui intimo «andava radicandosi una certezza profonda: sono figlio d’Israele! Il popolo fra cui vivo è il mio popolo, questa terra è la mia terra».

Nel nuovo clima che investe i rapporti ebraico-cristiani durante il pontificato di Giovanni XXIII, Hussar  affianca al concilio Vaticano II il cardinale Augustin Bea nell’elaborazione del «testo ebraico», divenuto poi il quarto paragrafo della Dichiarazione Nostra Aetate sull’atteggiamento della Chiesa verso le religioni non cristiane.  L’approvazione di quel testo non si presenta all’inizio né facile né scontata, ma alla fine nella maggioranza dei padri conciliari si fa strada la consapevolezza di dover sanare una ferita da troppo tempo aperta. Racconta Hussar che il testo, nella sua redazione originaria dettata dal cardinale Bea e risalente al 1961 – una formulazione breve ma piena di calore umano -,  esprimeva la contrizione della Chiesa per i peccati commessi da alcuni suoi figli contro gli ebrei e l’amore dei cristiani verso di loro. Il testo però andò in giro prematuramente e rischiò d’essere annullato a favore d’un’altra versione modificata in termini inaccettabili. Comparvero articoli, pamphlet anonimi, si tennero conferenze con attacchi violenti ispirati a una teologia decisamente anti-ebraica. Soprattutto i vescovi arabi esprimevano l’opposizione dei loro Paesi e delle comunità arabo-cristiane.  Per la presentazione del testo in assemblea fu nominata una commissione composta di venti vescovi di cui due arabi, e la prima votazione lo approvò per un voto solo.  Perché il testo ottenesse alla seconda votazione una buona maggioranza fu determinante l’intervento di Hussar, che nella commissione non aveva diritto di voto ma assisteva come esperto.  Così esso fu presentato in assemblea e approvato quasi unanimemente il 20 ottobre 1965, e promulgato da Paolo VI il 28 ottobre. Non era un testo esaustivo ma rappresentava un buon inizio, una vera svolta.  Nella circostanza, il contributo di Hussar fu tale che, sette giorni dopo, ricevette la cittadinanza d’Israele che aveva atteso per anni.

La guerra dei Sei giorni (giugno 1967) e le sue conseguenze fanno emergere in tutta evidenza  la rete intricatissima delle conflittualità che dilaniano il Vicino Oriente.

Poiché non ci si può occupare di tutti i conflitti, Hussar restringe la sua attenzione ai due popoli che nel Vicino Oriente si fronteggiano come nemici, e comincia a sognare un villaggio – Nevé Shalom / Wahat al-Salam (Oasi di Pace) – nel quale ebrei e arabi palestinesi vivano nell’uguaglianza, nella pace, nella collaborazione e nell’amicizia. Fondata nel 1974, l’«uto­ pia» di Bruno Hussar non tarda, pure fra mille ostacoli, a trasformarsi in realtà. Nel giro di pochi anni la piccola comunità binazionale e la sua Scuola per la pace diventano il teatro di un importantissimo mutamento di mentalità, di un’operazione qualitativamente preziosa di disinnesco di quell’enorme bomba emotiva, irrazionale, che il cumulo di tragedie e di ingiustizie consumate nel Vicino Oriente negli ultimi decenni è andato producendo. E paradossalmente proprio Nevé Shalom, «espe­ rimento utopico», finisce per svolgere il ruolo imprevedibile di «campione del realismo», grazie alla sua capacità di evitare gli scogli insidiosi del fondamentalismo religioso e dell’estremismo politico, e di prefigurare lucidamente una situazione di convivenza ragionevole e secolarizzata fra persone che si identificano con tradizioni religiose, culture, nazionalità diverse e conflittuali.

Ma nella visione profetica di Bruno Hussar, nel suo vigile spirito precursore  – uno spirito che, per molti versi, è avanti almeno d’una generazione  rispetto alla cultura del suo e del nostro tempo –  il momento forse più alto è l’idea di uno «spazio di Silenzio», di un luogo «in cui tutti potranno venire a raccogliersi, dove ogni culto potrà essere reso a Dio, nella fedeltà alla propria tradizione e nel rispetto delle altrui». Alludo alla bianca cupola di Dumia (in ebraico, «silenzio») edificata ai piedi della zona residenziale di Nevé Shalom, e nei cui pressi i resti mortali di padre Bruno ora riposano.  Nel contesto lacerato di Israele/Palestina, la mente e il cuore di Hussar propongono di recuperare la dimensione del silenzio come momento qualificante della vita spirituale, così da neutralizzare  le «bombe ideologiche» dalle quali nascono e rinascono i fondamentalismi.

In una riflessione sul processo di pace nel Vicino Oriente, formulata nel 1994 dopo gli accordi di Oslo, Hussar annota: «Gli estremisti dei due campi fanno già di tutto per frustrare gli sforzi verso la pace. […]  La nostra esperienza ci ha insegnato che non bisogna rinunciare a sperare».

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