Un progetto pensato in grande, ma ormai incamminato verso il declino.Sembra questo il destino del sogno di Ibrahim Issa, un musulmano palestinese che crede nella pace.A Betlemme dirige la scuola «Fiori di speranza», un istituto che insegna la tolleranza e che lavora in collaborazione con analoghe realtà israeliane.Un impegno che, ancor più dopo la vittoria di Hamas, non è visto di buon occhio dalla leadership palestinese.
Un grande progetto e il suo lento, inesorabile, declino: questo sembra essere il destino di una scuola chiamata «Fiori di speranza». Nata dal grande sogno di Hussein Ibrahim Issa, palestinese musulmano, arrivato a Betlemme dopo la guerra del 1948 e cresciuto nel campo rifugiati di Deheishe, oggi questa esperienza conosce una fase di grande difficoltà, soprattutto a causa del clima politico che non sembra favorevole al dialogo con Israele.
Come nasce «Fiori di speranza»? Nel 1984 viene aperto il primo centro (the Al-Amal Child Care Center): una sola stanza presa in affitto. Dopo dieci anni di attività e progetti, nel 1993 Hussein costruisce una grande scuola a Al-Khader, un villaggio pochi chilometri a sud di Betlemme, vicino ai grandi campi profughi.
Il figlio Ibrahim Issa insegue oggi lo stesso sogno del padre, ma della grande scuola di un tempo rimane solo il ricordo. Poche le classi: sono rimaste solo le elementari. I bambini sono numerosi nella scuola materna, ma nelle classi elementari si contano, quattro o, al massimo, sette scolaretti. Il primo piano dell’edificio è ancora utilizzato, mentre gli altri sono stati abbandonati. Le famiglie dei bambini che studiano qui sono così povere da non riuscire a pagare la retta di 900 shekel all’anno, poco meno di 160 euro. Anche se la scuola offre borse di studio e chiude un occhio verso chi proprio non può pagare, le iscrizioni non aumentano. E va a finire che molti bambini di queste parti, a scuola non ci vanno proprio.
Il motivo dell’abbandono e del calo di studenti si spiega con il clima di violenza determinatosi dopo la seconda Intifada, l’assedio di Betlemme e le continue incursioni nella zona dove sorge la scuola. Fin dai primi anni Novanta questa zona è teatro di combattimenti fra le forze militari israeliane e i militanti palestinesi. Il villaggio di Al-Khader è un ammasso di rovine. È stato bersagliato dalle forze israeliane anche per aver dato i natali ad alcuni attentatori suicidi.
Non bastasse, è arrivata a pochi passi dal campo di calcio della scuola la cosiddetta barriera di sicurezza, il Muro, che qui serve anche per dividere i Territori palestinesi dalla grande colonia ebraica di Gush Ezion, tuttora in espansione. La mensa della scuola sarà presto rasa al suolo dalle ruspe, per far posto ad accampamenti militari israeliani e a torri di sorveglianza.
Non è facile lavorare per il dialogo e per la pace in queste condizioni. Ma Ibhraim Issa, subentrato al padre nella direzione della scuola, non si vuole scoraggiare. «Credo che questi bambini non debbano crescere nell’odio. La situazione con Israele è sempre peggiore, noi palestinesi dobbiamo essere in grado di dare una svolta positiva, altrimenti non succederà nulla di buono in futuro».
Uno dei primi passi di questa «svolta positiva» è stato un training formativo per gli stessi professori che insegnano qui. Titolo: «Educazione alla pace e alla tolleranza». Chi non è d’accordo, non farà parte del corpo docente.
«Abbiamo anche un progetto di scambio con scuole israeliane, che hanno la nostra stessa idea dell’insegnamento. Fino alla costruzione del Muro potevamo mandare i ragazzi anche a lezione insieme ai loro coetanei israeliani». La scuola segue con particolare attenzione, grazie ad un pool di assistenti sociali e psicologi, i bambini che hanno subito un trauma a causa delle guerra e che vivono in difficili condizioni famigliari.
Ma come si sostengono questi sforzi di pace? Gli aiuti arrivano da privati cristiani, musulmani ed ebrei che vivono in Europa, America o Israele. Dall’Autorità nazionale palestinese invece non arriva nulla, neppure i libri di testo che tutte le altre scuole hanno gratis. Unico «dono»: una bandiera e una cartina geografica dei Territori palestinesi, senza alcuna traccia di Israele. Con l’obbligo di appendere tutto in bella vista.