Quando ci si reca a Gerusalemme presso il «muro occidentale», segno di ciò che è stato il Tempio di Gerusalemme, è facile incontrare ebrei che, ritornando nella Terra dei padri, arrivano qui per pregare direttamente dall’aeroporto, con i bagagli appresso, individuando quindi in rapporto a tale segno la prima tappa del loro ritorno. Quali sono le dinamiche soggiacenti a tale gesto? Perché per un ebreo è così importante ritornare a Gerusalemme sostando e pregando innanzitutto presso ciò che resta dell’antico Santuario?
Il «muro occidentale» costituisce ciò che rimane dell’unico «luogo sacro» per la tradizione ebraica, cioè lo spazio particolare ove Dio ha deciso di «far abitare il Suo Nome» (Sal 132,13) in un Tempio destinato ad essere la «casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7). Quando infatti la sua presenza ha «preso possesso» di questo luogo, Salomone ha invocato il Signore sia per il popolo di Israele che per tutti i popoli dicendo: «Anche lo straniero che non appartiene a Israele Tuo popolo, se viene da un paese lontano a causa del Tuo Nome perché si sarà sentito parlare del Tuo grande Nome, della Tua mano potente e del Tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo Tempio, Tu ascoltalo dal cielo, luogo della Tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il Tuo Nome, Ti temano come Israele tuo popolo e sappiano che al Tuo Nome è stato dedicato questo Tempio che io ho costruito (1 Re 8, 41 ss.)».
Nei libri dei profeti Isaia e Geremia troviamo parole ancora più esplicite: oltre al passo di Isaia già menzionato, Geremia precisa che «chiameranno Gerusalemme trono del Signore» – con una chiara allusione quindi al suo Tempio – «tutti i popoli vi si raduneranno nel Nome del Signore e non seguiranno più la caparbietà del loro cuore malvagio» (Ger 3,17). Le metafore profetiche cercano inoltre di mostrare come la perenne presenza divina in Tzion renderà Gerusalemme luogo per eccellenza della realizzazione dei tempi messianici, che vengono paragonati ad un grande banchetto segno di profonda comunione fra Dio e gli uomini (cfr Is 25,6-9), che saliranno al Tempio del Dio di Giacobbe affinché possa indicare loro le sue vie (cfr Is 2,3).
Il «muro occidentale» è pertanto ciò che rimane di uno spazio «sacro», segno della «sacralità di Dio» e di una sua particolare presenza sia per Israele che per tutti i popoli. Le sinagoghe, che talvolta sono impropriamente chiamate «tempio», non hanno nell’ebraismo lo stesso significato e lo stesso valore di questo luogo: sono spazi di riunione ove la comunità prega, studia, condivide momenti di festa, ove si conserva il rotolo della Torah – l’insegnamento divino rivelato al Sinai – che costituisce l’unico «oggetto sacro» per l’ebreo, ma non possono sostituire il Tempio in quanto esso è unico, edificabile una sola volta e solo in quel particolare luogo da Dio stesso indicato. Al ritorno dall’esilio di Babilonia è stato possibile riedificarlo perché non era interamente crollato, operazione oggi invece impossibile. Ciò, da una parte, costituisce un segno di lutto ma, dall’altra, mostra che i tempi sono cambiati: l’era dei sacrifici è finita, e la sacralità di questo luogo si è in qualche modo allargata a tutta la storia attraverso l’azione sacerdotale del popolo ebraico soprattutto legata alla liturgia famigliare. Pertanto non è il «muro del pianto», ma un segno della divina presenza per tutti.
(L’autrice è docente di giudaismo a Milano presso il Centro studi del Vicino Oriente)