Il conflitto mediorientale visto dal finestrino
Nei cinema italiani dal 12 maggio, il film Free Zone, di Amos Gitai, è un pianto sconsolato e dolce. Un pianto di donne, ma non solo, in lutto per una pace apparentemente non lontana eppure ostinatamente e ottusamente ricacciata indietro. Come un'utopia che non può aver casa tra gli uomini. Che proprio per questo rimangono senza casa.
Straziata da un amore deluso, Rebecca (l’attrice Natalie Portman) piange a dirotto, in primo piano, per una lunga serie di minuti.
Fuori dall’auto il cielo partecipa imperlando di gocce il finestrino. Il duplice pianto è accompagnato da una voce femminile che interpreta un canto tradizionale della Pasqua ebraica. Il pubblico italiano non può che riconoscervi la matrice di Alla fiera dell’Est di Angelo Branduardi.
Qui, però, al posto del topolino c’è l’agnello. Ed è – oltre all’acqua – il primo rimando simbolico religioso della pellicola. La nenia culmina con l’agnello che si chiede quando avrà fine il perenne circolo di violenza e sopraffazione di cui anche lui è vittima.
La donna abbassa il finestrino e i suoni esterni lasciano intuire che siamo a Gerusalemme. Ma quasi senza entrarvi, la città di Sion esce subito di scena. La giovane s’asciuga le lacrime, appare finalmente bella e chiede alla donna al volante di portarla via di lì. Hanna la tassista (l’attrice Hana Laszlo che per questa interpretazione ha vinto a Cannes 2005 il premio per la migliore interprete femminile) accetta malvolentieri di portarla dove è diretta: la Free Zone, zona franca al confine tra Giordania, Siria, Iraq e Arabia Saudita dove si commercia di tutto. La donna va, per conto del marito, a incassare 30 mila dollari da un creditore. Lì incontreranno la terza protagonista: l’araba Leila (la palestinese di nazionalità israeliana Hiam Abbass).
Non sveleremo il resto della trama, in verità alquanto scarna. La narrazione è quasi un racconto stenografico. Non conquista per la fotografia o per la colonna sonora: le musiche sono quasi assenti e i cieli sempre grigi. Solo la scena centrale è gratificata dall’azzurro.
Il regista ci conduce per mano in quest’angolo di mondo quasi senza uscire dall’automobile, l’involucro metallico in cui le tre donne si incontrano, scontrano e misurano. Fuori, gli uomini stanno come in un grande acquario. Uomini – tutti tranne uno, l’unico che prenda veramente la parola – che fanno e subiscono la guerra, che si rassegnano a odiare e allarmarsi, che sembrano non avere molto da dire, con i loro sentimenti rozzi quasi fossero dei Prigioni michelangioleschi incapaci d’essere creativi, di liberare l’umano dalle sue zavorre.
Le tre donne li guardano attonite e amareggiate. Li compiangono perché li sanno vittime anch’essi. Vittime della guerra, l’unica cosa certa e duratura in Israele, come dice Moshe, il marito di Hanna.
L’ultima scena del film propone uno scarto narrativo troppo repentino per essere fino in fondo convincente. Un finale in qualche modo aperto in cui torna il canto dell’agnello e la domanda: «Io non so più chi sono. Quando finirà tutto questo circolo vizioso di odio e sopraffazione?».
Free Zone è il primo film israeliano ad essere stato girato in Giordania.
Lo abbiamo visto in lingua originale (inglese, ebraico e arabo), sottotitolato in italiano.